A Santo Stefano, insieme ad alcuni attivisti di Potere al Popolo di Napoli, Boscoreale e Cava de’ Tirreni, mi reco al presidio degli operai della MeridBulloni. Prima di andare studio la situazione, i licenziamenti di ottantuno dipendenti mascherati da trasferimenti al Nord, a novecento chilometri da casa. Leggo le carte. Mi faccio raccontare quanti più dettagli possibili da uno dei nostri attivisti, presente al fianco dei lavoratori fin dall’inizio.
Di quei resoconti dei primi giorni del presidio, un episodio mi colpisce particolarmente: tra i giornalisti giunti a testimoniare, ce n’è uno che suggerisce agli operai di farsi immortalare con le famiglie, magari in lacrime mentre rivelano qualche episodio struggente. Che so, i bambini che chiedono di Babbo Natale o che domandano alla mamma perché mai il loro papà non si veda a casa, malgrado siano giorni di festa.
Vittime. Ecco come devono apparire i lavoratori e le lavoratrici. Vittima significa che non sei soggetto, che non sei in grado di articolare risposte e arrivare a soluzioni. Che sei in balia degli eventi.
Qui, però, in molti sono consapevoli di essere loro, con le loro mani, i loro muscoli e le loro intelligenze, a trasformare il mondo. Sono loro a produrre bulloni, rondelle. Sono loro, negli anni, a essersi inventati prodotti nuovi, processi innovativi, «che venivano gli ingegneri dal Nord a studiare e a capire per poi portare la produzione anche altrove». C’è quest’orgoglio di homo faber negli occhi e nelle parole di questi operai. Giovani, perlopiù.
A un tratto, un omaccione si avvicina mentre stiamo parlando, ci interrompe, senza alcun riguardo per la nostra conversazione. Scoprirò poi che è un ex operaio, uno di quelli più da manifesto sovietico che da vita reale: alto, tutto muscoli e nervi. È evidente che c’è qualcosa che gli ribolle dentro e che deve tirar fuori per forza, e pure subito: «Allora gli facevamo paura. Quando gli andavamo sotto alzavano le mani e ci riverivano, cedevano». Quando dice noi non sta parlando solo degli operai della MeridBulloni. È un noi che è soggetto collettivo, che vive fuori, in altri posti di lavoro, nelle città, nella Castellamare Stalingrado del Sud e oltre.
Tornando verso l’auto mi riecheggia in testa quel “suggerimento” del giornalista. Scrollo la testa. No, se sei vittima hai bisogno di un salvatore. Non sei più padrone del tuo destino, ma lo stai mettendo nelle mani di qualcun altro. Di chi? Dove sarebbe questo salvatore?
Quando ci siamo salvati è stato solo e sempre perché c’è stato un attore collettivo che si è fatto interprete dei bisogni e dei desideri della maggioranza della nostra gente. È l’opera titanica che abbiamo davanti. Che non si presenterà come atto, bensì come processo. La battaglia degli ottantuno dipendenti della MeridBulloni è parte di questo processo. Per questo è tanto importante stare con loro. Perché è della nostra storia collettiva che si sta parlando.