«The Catcher in The Rye parla di me, della mia vita, Salinger è come se mi conoscesse da sempre. Forse, è questa la frase che sento dire più spesso dai lettori di mio padre e la cosa non ha mai smesso di sorprendermi, non mi sono mai abituato all’idea che tantissima gente si sentisse rappresentata da Holden e da tutti gli altri personaggi a cui papà ha dato vita tramite la sua scrittura». Trovarsi di fronte a Matt Salinger, figlio del celebre scrittore americano Jerome David, genio assoluto della letteratura mondiale del secondo dopoguerra, è un’emozione difficile da raccontare, soprattutto se di quel gruppo di persone che in Holden ha trovato una chiave di lettura per la propria esistenza, una voce alla ribellione che prima o poi monta dentro, se ne fa parte, orgogliosamente o nel silenzio dell’intimità di una camera troppo stretta.
Il giovane Holden, riconosciuto da chiunque come il romanzo di formazione per eccellenza, il libro che non può mancare, è ancora per tanti, tantissimi, una luce, una fonte d’ispirazione, una mano amica, pertanto, il suono di quel cognome non può non far sentire chiunque così maledettamente felice che per poco non mi misi a urlare, se proprio volete saperlo. Non so perché.
Matt Salinger, ospite della XXXII edizione del Salone del Libro di Torino, affronta il popolo dei riconoscenti verso l’opera del suo genitore in una sala gremita oltre ogni consentita capienza, riabilita l’immagine di J.D. di uomo burbero, schivo, talvolta intrattabile anche dagli stessi familiari: «È stato un padre molto presente, più di quanto non lo fossero tanti genitori dei miei amici. Seguiva ciò che noi figli facevamo, osservava, gli piaceva dispensare i suoi consigli, facevamo insieme tante cose. Non ha mai tolto del tempo alla famiglia per dedicarne alla sua scrittura. Aveva metodo. Si alzava ogni mattina alle quattro e cominciava a scrivere, poi si rivolgeva a noi, riposava e nel pomeriggio passava qualche altra ora alla scrivania».
Chi ha letto, nel corso degli anni scorsi, successivi alla sua scomparsa nel gennaio del 2010 di un Salinger al limite della pazzia, tutt’altro che semplice e affabile nei confronti dei fan, della stampa, come dei figli, dunque, scopre una nuova versione dello scrittore e del mito. Un solo aspetto combacia e Matt Salinger lo conferma: «Non ha mai smesso di scrivere, è vero. Al contrario, sapeva che, prima o poi, ciò su cui stava lavorando sarebbe stato pubblicato e portato a conoscenza di tutti quelli che aspettavano i suoi nuovi romanzi. Certo, avrei preferito fosse stato più ordinato nella raccolta del suo lavoro, rimettere insieme tutti i pezzi dei vari puzzle che comporranno i volumi di prossima pubblicazione (non prima di cinque o dieci anni) non è stato semplice. Pubblicare, diceva, interferisce con il processo creativo, per questo ha deciso di non farlo da sé. Al contrario, non ha mai concesso i diritti al cinema proprio per l’amore che nutriva verso la scrittura e i lettori. Diceva che la forza della narrazione è in ciò che immagina chi sta dall’altra parte del libro, nel modo in cui si figura i personaggi, le scene, nell’interpretazione che ne dà ognuno. Se avesse acconsentito a una trasposizione cinematografica, da un certo punto in avanti, le persone avrebbero riconosciuto Holden nel volto di qualche attore di Hollywood, nei suoi tic, le sue espressioni, ammazzando, di fatto, la magia che è propria solo dei libri».
L’emozione tiene la sala in un surreale silenzio. Le porte della casa di Cornish, nel New Hampshire, dopo cinquant’anni si aprono al sole, al vento che spazza via l’odore di chiuso, alla riconoscenza che le centinaia di persone presenti riversano sul figlio per amore del padre. Matt Salinger, come stordito da tanta incondizionata riverenza, ricambia offrendo le immagini private della vita di J.D., i momenti di tenerezza, come quelli di grande difficoltà per una gioventù trascorsa in trincea, fino ai campi di concentramento della Germania, che condizionarono il resto dell’esistenza sua e dell’intera famiglia: «Papà mal sopportava la neve, gli ricordava alcuni scenari di guerra, così come i rumori forti. Al cinema, ad esempio, non ricordo sia mai più tornato. Mi ha trasmesso l’amore per i libri, ricordo cominciai a leggere Baudelaire su suo consiglio. Era molto amico di Fitzgerald, si scambiavano idee, punti di vista, il loro confronto era molto stimolante. Essere suo figlio, nonostante le difficoltà legate alla sua esperienza con l’esercito, è stata un’avventura incredibile, e oggi, in ogni parte del mondo, raccolgo il bene che ha seminato, i suoi lettori riversano su di me tutto l’affetto che avrebbero voluto destinare a lui. Era un uomo autentico e buono. Se qualcuno aveva bisogno lui, lo aiutava: a volte venivano dei veri pazzi a chiedere aiuto e lui gli dedicava tantissimo tempo. Ricordo i suoi occhi gentili».
L’immagine con cui si congeda dai tanti presenti, infine, è la sintesi di ciò che Salinger è stato per tutti, del modo in cui i suoi scritti hanno influenzato il pensare di ognuno, di come le emozioni del catcher nella segale abbiano reso più oneste quelle di cui un suo lettore è capace: «Le volte che passavo per New York, in compagnia di amici, o da solo, specialmente attraverso Central Park, mi ritrovavo a chiedermi, di fronte al lago, chissà dov’è che vanno le anatre quando ghiaccia. Ecco, un attimo dopo mi sentivo stupido e mi domandavo: ma davvero mi sto chiedendo questo?».
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