Un oggetto. Un corpo fatto solo di carne, privo di volontà o di anima, privo di una mente senziente o di una mente degna di essere ascoltata. Una vita che non vive se non per essere posseduta, che non esiste se non per appartenere e che trova un senso solo nel gradimento altrui. Un essere che non è, non davvero. Questa è stata per millenni la donna e questa, in qualche modo, continua a essere, con le sconcertanti notizie che arrivano dal mondo. Nascosto sotto la maldestra maschera di una premurosa legge che difende le nozze sane ma irregolari, il partito turco Giustizia e Sviluppo sta tentando di riproporre in Parlamento l’aberrante pratica del matrimonio riparatore.
Dopo la faticosa abolizione del 2005, grazie alla quale l’abitudine di dare in moglie al proprio aggressore una donna violentata era stata teoricamente eliminata, la Turchia di Erdogan tenta un nuovo approccio. E non è la prima volta: già nel 2016 il partito conservatore aveva avanzato una proposta di legge che evitasse la prigione agli autori di violenza sessuale. Ora la proposta torna in Aula, con la clausola che non ci siano più di dieci anni di differenza tra vittima e aggressore, rendendo legale anche l’unione con una minore nonostante l’età del consenso sia in realtà a 18 anni.
Apparentemente distorte le nobili intenzioni del partito, la mozione vorrebbe tutelare i matrimoni che coinvolgono le più piccole, molto frequenti nelle zone rurali del Paese, dove la legge non è conosciuta da tutti, ma anche dove, a detta dei politici conservatori, gli uomini coinvolti non sono violentatori o aggressori sessuali. La proposta, oggi come quattro anni fa, ha incontrato le decise proteste prima delle donne presenti in Parlamento, poi delle grandi città della nazione, sulle note di El violador eres tú (la canzone cilena divenuta simbolo di molteplici manifestazioni), scatenando potenti indignazioni in tutto il mondo occidentale.
A dispetto della goffa facciata, si tratterebbe di una legge tutt’altro che d’aiuto per le gravi condizioni in cui vivono le donne e le bambine turche. Nell’ultimo decennio, infatti, la Turchia ha ospitato i matrimoni di mezzo milione di spose bambine e 2600 omicidi di donne. La piattaforma Fermiamo i femminicidi ha affermato che la proposta rappresenta una mossa strategica del governo per oscurare le prove di una violenza di genere che cresce esponenzialmente. Non a caso, le autorità hanno smesso di pubblicare statistiche a riguardo dal 2009 ma, secondo le ricerche delle Nazioni Unite, il 38% delle donne turche è stata vittima di violenza da parte del coniuge.
E se già per la violenza in sé è difficile trovare giustizia, quella perpetrata dal proprio partner raramente è riconosciuta, legalmente e socialmente, anche nei più avanguardisti Paesi occidentali. Dunque, una legge che non solo scagiona gli aggressori, ma che lega il destino delle vittime a uomini violenti, non punterà certamente a proteggere il prezioso onore di giovani indifese e non farà che perpetrare l’idea di donne come oggetti, come proprietà di cui è facile appropriarsi e come corpi di cui disporre per il piacere maschile.
Sono molti i Paesi del Medio Oriente e dell’America Latina che ospitano un numero sempre maggiore di proteste, ma all’azione non dovrebbero limitarsi solo le organizzazioni femminili dei luoghi del mondo che ci sembrano remoti e che sono molti passi indietro nella lenta corsa all’uguaglianza di genere. Perché, in un modo o nell’altro, questa battaglia riguarda tutti. E tutte. Come le folli proposte di un anacronistico partito conservatore coinvolgono un Paese che di strada su questo fronte crede di averne fatta così tanta da non ritenere neanche più sensato parlarne? Forse incuranti del fatto che l’Italia, con la sua impronta conservatrice e cattolica, è giunta alla sua versione moderna in tempi fin troppo recenti.
Quella del matrimonio riparatore ha costituito una pratica d’uso comune anche da queste parti per secoli, al punto che una donna che rifiutava la riparazione di quell’onore che le era stato sottratto senza permesso alcuno, perdeva la possibilità di trovare marito e incontrava il disprezzo sociale che la verginità violata e non maritata produceva. La vittima di stupro dell’Italia degli anni Settanta e della Turchia oggi non aveva e non ha scampo ed è vittima due volte. La prima, della violenza perpetrata; la seconda, della scelta a cui è costretta: passare il resto della vita con il proprio violento aggressore, oltretutto legittimato, o portare per sempre sul petto la lettera scarlatta di un disonore di cui si non ha colpa.
La moderna Italia si è liberata di questa pratica solo nel 1981. Ma la sua celata arretratezza non si ferma qui: solo nel 1996 la violenza sessuale è diventato un reato contro la persona. Fino ad allora era considerato un crimine contro il buon costume e la moralità pubblica, di fatto perseguibile con pene irrisorie, come altri delitti simili. È alla luce di una nazione troppo recentemente evoluta, quindi, che la battaglia delle donne turche dovrebbe diventare la battaglia delle donne e degli uomini italiani, europei, occidentali, dei cittadini di questo mondo tanto potente da colonizzare lo spazio, ma troppo arretrato da ignorare i diritti civili e troppo complesso per riconoscere l’uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte al valore della vita. In fondo, cosa c’è di tanto diverso? Dove sta la differenza con la tirannica Turchia?
Se la violazione di un corpo, l’elusione della volontà di un individuo vengono abitualmente ignorati, soccombendo ai prepotenti propositi di mani predatrici, se gli istinti violenti del corpo maschile hanno più rilevanza del libero arbitrio del corpo femminile e gli apparati culturali e legali giustificano più i carnefici delle vittime e trovano espedienti per salvarne la faccia, se tutto questo continua ad accadere, dov’è la modernità? Dove la giustizia? Come si può realmente affermare che la parità di genere sia raggiunta? Non si può. E la battaglia è ancora lunga.