Quella di Matilde Serao, prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Mattino, di certo, fu una vita tra le lettere. Figlia del giornalista Francesco Serao, sin da piccola l’ambiente della redazione di un giornale fu per lei qualcosa di familiare, sebbene imparò a leggere e a scrivere solo a otto anni. A ventidue, invece, completò la sua prima novella, Opale, e da quel momento, fino alla morte – che la sorprese il 25 luglio 1927 mentre era intenta a scrivere alla sua scrivania –, non rinunciò mai alla parola redatta.
Della sua celebre opera, però, due racconti restano ancora oggi sconosciuti ai più: Cristina e Sacrilegio.
Il primo, Cristina, è la storia di una ragazza di provincia, mediamente benestante e senza sogni, che aspira ad avere un marito come lei, un tranquillo bottegaio o impiegato, senza sogni come lei, per continuare a vivere come ha sempre vissuto: occupandosi della casa, del vecchio padre, del marito e dei figli, se verranno. Il racconto è fatto di minuzie: inizia, infatti, con Cristina che spande i panni sul terrazzo e Matilde sottolinea che sul muretto sei tovaglioli bagnati (non alcuni, ma sei, notate la precisione del dettaglio) si asciugano al sole mantenuti fermi contro il lieve ponente da pezzi di mattone.
Questa, dunque, è la vita della giovane, un tran-tran senza scosse, fino a quando il padre le trova il marito adatto: un agiato commerciante un po’ più grande di lei. Il fidanzamento si svolge secondo le regole e, intanto, si avviano i preparativi del matrimonio. In questa routine, però, irrompe un elemento di disturbo, Peppino Fiorillo, studente, libero pensatore e mangia preti, che la ama disperatamente. In paese Peppino è considerato un po’ folle, bravissimo con le parole, inconcludente nei fatti. Oggi avrebbe occupato un centro sociale. Costante solo nell’amore per la ragazza, lei lo respinge, non accetta le sue lettere e ogni volta che lo vede – abitano di fronte – chiude le persiane. Disperato va via, in giro per l’Italia, mentre Cristina naviga tranquilla verso le sue placide nozze. Proprio sul più bello, però, ricompare lui. Bussa alla porta di lei e si spara. Sta per morire. Per pietà umana, allora, la ragazza lo accoglie in casa e lo cura, ma la situazione si fa sempre più grave. Peppino, così, in punto di morte, le chiede di sposarlo. Convinta dagli altri, Cristina accetta, tanto sarà a breve la vedova di un suicida. Il destino, però, la beffa: l’uomo guarisce e lei dovrà farsi carico di un marito inetto e spiantato, una Filumena Marturano al maschile.
Il secondo racconto, invece, si chiama Sacrilegio. Non è veramente una storia, è il confronto, anzi, lo scontro fra due anime disperate che si rinfacciano il passato con una gelosia della memoria, inutile. Ognuno chiede all’altra di essere amata come è stata amata la prima donna o il primo amante. Entrambe si lacerano in un confronto diretto fra ricordi, pretese, rimpianti e alla fine commettono il sacrilegio: offendono memorie per amarsi veramente poiché, anche nei momenti di intimità, i fantasmi del passato le dividono. Il loro non è amore, è profanazione.
La lingua di questo scritto è diversa da quella di Cristina. È, infatti, tutta raffazzonata di termini filosofici nel tentativo di dare solennità al discorso, tuttavia senza riuscirci. Le protagoniste sono povere anime meschine che si illudono di essere uniche e diverse, ma non lo sono. Sono, difatti, esseri comuni e nel contrasto fra la modestia del loro essere e l’illusione della loro presunzione di superiorità sta tutto il dramma che le contraddistingue.
Quest’opera dell’autrice, scrittrice infaticabile, comunque non è la sua più importante. La Serao che piace a me è quella giornalista ventiseienne che denuncia con passione i mali di Napoli che lei conosce bene perché ha vissuto sempre nei quartieri popolari. I suoi indirizzi partenopei sono, infatti, Piazza Banchi Nuovi, Vico Rosario a Porta Medina et similia.
Il ventre di Napoli, ad esempio, è un vero manifesto politico. L’invettiva iniziale contro Depretis – Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo ed il Governo deve saper tutto – esprime tutta la sua passione, un pezzo di giornalismo moderno d’inchiesta che ha fatto da modello, e in cui il sentirsi totalmente dalla parte dei diseredati aiutò l’articolista a far sentire la loro voce fino ad allora inascoltata.
Matilde, colei che vince, come dice il suo nome, non ebbe una vita facile, eppure fu determinata e forte. Non aveva il fascino della donna bella e, dunque, per superare la barriera del suo aspetto e giungere all’amore in cui, come disse Eduardo Scarfoglio, diventava bellissima, non poté che usare l’arma dell’intelligenza. Infelice dono per una donna del suo tempo, come dimostra non solo la sua vita ma anche quella della numerosa pattuglia di donne che illustrò la letteratura italiana fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, di cui la Serao fu l’alfiere.
Vi erano in quel gruppo nomi che ebbero una certa notorietà e che ora sono stati dimenticati, non per la scarsità del loro valore letterario ma per il prevalere di una chiusura sociale che solo l’aggressivo femminismo degli anni Sessanta riuscì a sconfiggere. Con opera meritoria, Leonardo Sciascia riportò all’attenzione della cultura italiana qualcuno di essi, tuttavia l’iniziativa si arenò con la morte dello scrittore.
Simile a Matilde, ma meno fortunata di lei nella carriera letteraria, fu, ad esempio, Maria Messina che, nata in uno sperduto borgo della provincia di Palermo, diventò una bravissima scrittrice, la scrittrice delle piccole cose e delle piccole persone con una decennale corrispondenza epistolare con Giovanni Verga che dominava con il suo Verismo la temperie culturale dell’epoca insieme al crudo realismo di Émile Zola, influenzando la narrativa italiana. Ancora di più, condizionarono il côté sociale della letteratura femminile i feuilletons di Xavier de Montépin e, principalmente, Eugène Sue con i suoi Misteri di Parigi, che nel capoluogo campano trovarono un degno epigono in Francesco Mastriani e nella cruda descrizione della vita del sottoproletariato locale nei Vermi e nei Misteri di Napoli, i quali ebbero su Matilde una profonda influenza, come lei stessa ammise e come si può dedurre da molti aspetti della sua produzione.
Potrei fare un lungo elenco di scrittrici e poetesse che lasciarono il loro segno e che per il solo fatto di scrivere e pubblicare furono le antesignane del femminismo italiano. Molte erano di cultura ebrea, come Amelia Pincherle, zia di Moravia e madre dei fratelli Rosselli martiri antifascisti, e Rina Faccio; la partenopea Laura Beatrice Oliva, la Aganoor, Sibilla Aleramo, iniziatrice di una stirpe di poetesse che ha avuto in Alda Merini l’ultima gemma. Tutte di condizione borghese, tranne Ada Negri che rivendicò con orgoglio di essere figlia dell’umile stamberga. Un mondo di intelligenze vive, mortificate dai pregiudizi maschilisti, quasi tutte politicamente progressiste, sia pure con le limitazioni di quei tempi.
Per concludere, quindi, leggete i racconti di Matilde Serao pensando alla donna che li scrisse: coraggiosa, combattiva libera da convenzioni, che scelse i suoi uomini con franchezza e ne sposò uno più giovane, avendo da lui un figlio prima del matrimonio (orrore!). Una precorritrice del giornalismo contemporaneo in Italia che ebbe un’esistenza infelice. Una donna moderna, eccezionale, dalla vita piena di chiaroscuri e, anche, di qualche compromesso con il potere, come testimonia il suo coinvolgimento, sia pure marginale, nella inchiesta Saredo voluta dal Governo per contrastare il malaffare e la collusione con la camorra del Sindaco Summonte e della sua giunta.
Permettetemi, allora, un ultimo consiglio: leggete gli scritti di tutte le donne che ho segnalato. Avrete una bella sorpresa.
Contributo a cura di Ernesto Nocera