È una fiaba crudele quella che a Pinocchio sostituisce Geppetto, mettendo al centro della scena il vecchio falegname anziché la sua marionetta. Sbiadisce i toni dell’immaginifico e rafforza i riflessi della realtà: non vi è più traccia di animali incantati o fate turchine, ma di uomini di paese e locandieri che non soffrono scrupoli, neppure di fronte a un vecchio e alle sue debolezze. Mastro Geppetto (Sellerio), il nuovo romanzo di Fabio Stassi, è una lode agli ultimi e al loro coraggio.
A centoquaranta anni dalla pubblicazione del celebre Pinocchio di Collodi, lo scrittore di origini siciliane riscrive la storia più famosa della letteratura fiabesca lasciando al centro del palco solo il vecchio Geppetto, proseguendo un lavoro che la casa editrice palermitana ha già sperimentato altre volte anche con lo stesso autore, come nel caso de L’ultimo ballo di Charlot.
C’è, infatti, qualcosa di ognuno dei personaggi di Stassi in Geppetto. C’è il carnevale di Rigoberto – chissà, giunto alla fine –, la rivincita impossibile di Capablanca, il respiro interrotto di Sole, il suo desiderio, la magia del teatro di Angelica. Vi sono tracce persino dei cocciamatte a cui l’editor della casa editrice minimum fax ha contribuito a dar forma, Bonfiglio Liborio e Giuda, che, sebbene non siano inchiostro della sua penna, dimostrano di aver preso e lasciato qualcosa di sé.
Mastro Geppetto straccia la fiaba e racconta la ferocia dei giorni nostri, un tempo insensibile verso i matti e gli storpi, una società tutt’altro che solidale, piuttosto capace di relegare i più deboli ai margini e lasciarli fuori. Ciononostante, il falegname rivendica il proprio diritto a un posto nel mondo, al suo ruolo di genitore, alla sua dignità di uomo e burattinaio, proprio come desidera. Geppetto incarna l’amore incondizionato di un padre verso il proprio figliolo, quel sentimento capace di qualunque eroismo, e subisce la cattiveria di cui i ragazzi sanno essere capaci quando impegnati a inseguire il loro destino.
Nel tratto distintivo della sua intera opera, la malinconia, Stassi ripercorre i passi della propria infanzia e adopera Mastro Geppetto per scrivere della sua famiglia, dello zio a cui dedica le pagine conclusive del libro, per resistere al fianco di quegli straccioni che tanto gli ispirano fascino, tenerezza e, al contempo, coraggio. Finalmente libero dai vincoli di qualunque genere, l’autore si allaccia soltanto all’emozione che prova raccontando, un fremito che – alla lettura – si avverte.
Il lavoro che Stassi realizza sulla lingua è notevole, ricercato, forse come in nessun altro precedente romanzo, eppure la sincerità del racconto non ne risente, anzi, viene fuori trainata dall’esigenza di raccontare la propria versione dei fatti, il fiato mio con cui dà vita a Geppetto e che il falegname soffia sull’anima del suo Pinocchio.
Le vicende che coinvolgono Mastro Geppetto – alla ricerca del suo figliolo, all’inseguimento del sogno di girare il mondo con il suo teatro dei burattini – si dipanano tra cadute e nuove rinascite per terminare nella pancia di un pesce-cane straordinariamente d’impatto in cui anche il chiacchiericcio spesso sconclusionato di un matto trova compimento.
A chi – come chi scrive – con la favola di Pinocchio non ha mai trovato empatia, Mastro Geppetto di Fabio Stassi offre una nuova occasione nelle sorti di quel falegname dalle scarpe bucate che somiglia a qualcosa del proprio artigiano, anziché nelle vicende del burattino. È una storia nuova, un palcoscenico contemporaneo dove la povertà, la malattia, il bisogno di amore, la crudeltà e il riscatto sono al centro della scena, motore concreto dell’azione. Se fosse questa la vera versione?