– Metafore, diamine!
– E cosa sarebbero?
Il poeta posò una mano sulla spalla del ragazzo.
– Per spiegartelo più o meno confusamente, sono modi di dire una cosa paragonandola con un’altra.
– Mi faccia un esempio.
Neruda guardò l’orologio e sospirò.
– Be’, quando dici che il cielo sta piangendo, cos’è che vuoi dire?
– Semplice! Che sta piovendo, no?
– Ebbene, questa è una metafora.
– E perché, se è una cosa così semplice, ha un nome così complicato?
– Perché i nomi non hanno nulla a che vedere con la semplicità o la complessità delle cose. Secondo la tua teoria, una cosa piccola che vola non dovrebbe avere un nome lungo come farfalla. Pensa che elefante ha lo stesso numero di lettere di farfalla, ed è molto più grande e non vola, – concluse Neruda esausto. Con un ultimo scampolo di energia gli indicò la strada per la caletta. Ma il postino ebbe la baldanza di dire:
– Cacchio! Come mi piacerebbe essere poeta!
E, invece, lo era. Lo era Mario Jiménez e, ancor di più, Mario Ruoppolo. Lo era Massimo Troisi.
Nel 1986 Antonio Skármeta diede alla luce Ardiente paciencia – più noto come El cartero de Neruda (da cui deriva il titolo italiano) – la celebre storia del postino che consegna missive a Pablo Neruda in un piccolo villaggio di pescatori di Isla Negra, in Cile, e del rapporto di stima e di amicizia che, giorno dopo giorno, si instaura tra i due.
Siamo nel giugno del 1969. Il poeta è sull’isola in attesa di notizie in merito alla sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura; Mario, invece, tra i pochi abitanti in grado di leggere e, per di più, in possesso di una bicicletta, è incaricato come portalettere locale. L’unico a ricevere posta, però, è proprio Pablo Neruda. Inevitabile, quindi, l’incontro quotidiano tra i protagonisti. Inizia, così, un incredibile scambio tra due mondi diversi ma non lontani quanto si tende a pensare. Dapprima con riserva e timidezza, poi con sempre più interesse e ammirazione, sia lo scrittore sia il postino si avvicinano l’uno all’altro con desiderio di conoscenza ed empatia.
La genuinità di Mario, lo stupore con cui guarda il mondo, la schiettezza e la passionalità che lo contraddistinguono colpiscono il poeta che, come un padre, “adotta” il giovane e gli insegna a cercare e trovare la poesia prima dentro di lui, poi in tutto quanto c’è fuori.
Io non so dire quello che hai letto con parole diverse da quelle che ho usato. Quando la spieghi, la poesia diventa banale. Meglio delle spiegazioni, è l’esperienza diretta delle emozioni che può spiegare la poesia a un animo disposto a comprenderla.
Neruda lo prende per mano e lo accompagna al ritmo nostalgico delle onde che bagnano la costa, gli insegna l’arte della poesia e della scrittura, dell’amore. Come un novello Virgilio, lo spinge verso la sua dama, Beatriz González – la meravigliosa e seducente figlia della barista del luogo – di cui Mario si innamora perdutamente a prima vista.
– Don Pablo, – dichiarò solenne. – Sono innamorato.
Il vate usò il telegramma a mo’ di ventaglio, e prese a muoverlo davanti al mento.
– Bene, – rispose, – non è tanto grave. C’è rimedio.
– Rimedio? Don Pablo, se c’è rimedio, io voglio solo rimanere ammalato. Sono innamorato, perdutamente innamorato.
Il poeta lo libera dalla timidezza che gli impedisce la parola dinanzi al cospetto di colei che in un battito di ciglia gli ha rubato il cuore, il sonno e la fantasia. Colei che, “insieme”, riescono a conquistare.
– Don Pablo, sono innamorato.
– L’hai già detto. E io che posso farci?
– Mi deve aiutare.
– Alla mia età!
– Mi deve aiutare, perché non so cosa dirle. Me la vedo davanti ed è come se fossi muto, non mi esce fuori neanche una parola.
– Come? Non le hai mai parlato?
– Quasi niente. Ieri sono stato a passeggiare sulla spiaggia come mi ha detto lei. Ho guardato il mare per un bel pezzo, e non mi è venuta nessuna metafora. Allora sono andato all’osteria e mi sono comprato una bottiglia di vino. Be’, è stata lei a vendermi la bottiglia.
– Beatriz.
– Beatriz. Sono rimasto a guardarla e mi sono innamorato di lei.
Neruda si grattò la placida calvizie con il dorso della biro.
– Così, di colpo.
– No, così di colpo no. Sarò rimasto a guardarla almeno dieci minuti. E lei?
– E lei mi ha detto: “Cosa guardi, cosa c’è da guardarmi a quel modo?”
– E tu?
– Eh, non mi è venuto niente da dirle.
– Niente di niente? Non le hai detto neanche una parola?
– Proprio niente di niente, no. Le ho detto cinque parole.
– Quali?
– “Come ti chiami?”
– E lei?
– E lei mi ha detto: “Beatriz González”.
– Le hai chiesto “come ti chiami”. Bene, fanno tre parole. E le altre due?
– “Beatriz González”.
Bella come poche, Beatriz è, nell’immaginario comune, la giovane e sensuale Mariagrazia Cucinotta che nel 1994 – diretta da Michael Radford e Massimo Troisi – la interpreta nel film Il postino, candidato poi a numerosi Premi Oscar.
La pellicola, che presenta molteplici differenze con la storia originale raccontata da Skármeta – anno (1952), luogo (una piccola isola del Sud Italia), motivo della presenza di Pablo Neruda, e svariati intrecci che non vi sveleremo (tra cui il finale) – fu l’ultima emozionante interpretazione del Pulcinella senza maschera, il meraviglioso, unico, immenso, Massimo Troisi. L’attore, infatti, morì dodici ore dopo la fine delle riprese, lasciando a noi tutti la sensazione che quella storia, la sua e quella di Mario, non fosse conclusa e non dovesse già concludersi. I più romantici, e non solo, di quel legame in versi, raccontato dall’artista napoletano e dal magistrale Philippe Noiret, non ne avrebbero mai avuto abbastanza. Così come di quegli occhi scuri e sognanti, innamorati e sofferenti del nostrano Massimo. Della sua voce tremante.
Per chi aveva già avuto modo di apprezzarlo – e ci sembra impensabile il contrario – appariva chiaro che stesse per lasciarci, eppure, nonostante le condizioni più che precarie, Troisi non si risparmiò in nessuna scena, anzi, si dedicò a ognuna di esse così intensamente da giungere stremato al termine di un lungo e ottimo lavoro.
Il film, quel film, è il regalo più grande che potesse farci, un’eredità importante che nessuno, ahinoi, ha saputo e saprebbe raccogliere. Risulta difficile, quasi impossibile, immaginare un Mario diverso. Senza i capelli ricci e l’espressione vera e ingenua, la risata dolce, la spontaneità del carattere, senza gli occhi tristi e poetici. Insomma, senza l’animo di Massimo Troisi.
Ci sembra spontaneo vederlo su quella riva accanto al vero Pablo Neruda a chiacchierare come vecchi amici, a interrogarsi su quanta poesia ci sia intorno a noi – Lei crede che il mondo intero sia la metafora di qualcosa? – a scherzare, a chiedersi quando e se il comunismo avrebbe, finalmente, trionfato. Siamo certi che la sua nobiltà d’essere così come la sua profondità non sarebbero state trascinate via dalle onde, ma rese in una qualche rima del vate. Non è un caso che sia stato proprio lui a rendere omaggio, con la sua pellicola più celebre in tutto il mondo, al grande lavoro di Antonio Skármeta. Tendiamo a credere, inoltre, che anche lo scrittore cileno non desiderasse un interprete diverso per la sua storia. Chiunque abbia amato, almeno una volta nella vita, ha tentennato dinanzi alla sua Beatriz e ha desiderato, ardentemente, che ella lo guardasse come Mario-Massimo guarda la sua musa, la sua poesia mai scritta più bella. Chiunque abbia amato, ma anche chi ancora non ha avuto il privilegio di farlo.
Si dice che di un libro non vada mai vista la trasposizione cinematografica per non restarne delusi. Ardiente paciencia e Il postino, però, sono come due rime incatenate di un unico componimento poetico. Antonio Skármeta la penna, Massimo Troisi il foglio. Un meraviglioso incontro di passione e nostalgia, di amore e poesia. Indimenticabile. Come Pablo Neruda.
Uno, il vento sul campanile di Isla Negra. […] Due, io che suono la campana grande del campanile di Isla Negra. […] Tre, le onde sulla scogliera di Isla Negra. […] Quattro, canto dei gabbiani. […] Cinque, l’alveare delle api. […] Sei, il mare che si ritira. […] E sette […]: don Pablo Neftalí Jiménez González.