Fino al 29 ottobre 2023 presso Le Gallerie d’Italia, a Napoli: questo il termine ultimo per visitare la mostra dedicata a uno dei più importanti artisti italiani della scena nazionale e internazionale del ventesimo secolo, Mario Schifano.
L’esposizione, Mario Schifano il nuovo immaginario. 1960-1990, presenta oltre cinquanta lavori della produzione dell’artista dagli anni Sessanta agli anni Novanta, provenienti dalla Collezione di Intesa Sanpaolo, da importanti istituzioni culturali come il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Internazionale d’Arte Moderna Ca’ Pesaro di Venezia, oltre che da gallerie d’arte e collezioni private nazionali e internazionali, con la collaborazione dell’Archivio Mario Schifano.
Variegata la selezione del curatore, Luca Massimo Barbero: dai primi monocromi degli anni Sessanta (rarissimi) – piccole tele coperte da carta d’imballaggio e poi dipinte con smalti industriali, solitamente nei colori del rosso, bianco e nero, una sperimentazione concettuale che richiama le produzioni artistiche di Fontana e Manzoni, l’espressionismo astratto di Rothko, di Pollock e Jasper Jones, provenienti dalla collezione Luigi e Peppino Agrati e poi confluiti in quella del Gruppo Intesa Sanpaolo, esposti per la prima volta insieme – ai giganteschi pannelli su cui puzzle di televisori aprono finestre sul mondo della cronaca, sul rapporto dell’artista con la tecnologia, sulla propaganda e il modo in cui veniva utilizzata per comunicare.
Tra il 1963 e il 1965 il paesaggio è il tema prevalente della sua produzione (Ultimo autunno, 1964). Si tratta di aperture sul mondo esterno, frammenti sintetici di mondo naturale e di paesaggi metropolitani. Negli anni Settanta, l’omaggio ai grandi maestri, già esplicito in Futurismo rivisitato (1966), emerge nei Paesaggi TV, serie di opere in cui Schifano ripensa alla pittura attraverso la macchina fotografica e l’emulsione del colore sulla tela, catturando cronaca, arte e pubblicità.
Le tre decadi a cui la mostra è dedicata si svelano in vari tipi di espressione artistica: tele, fotografie, collage, serigrafie, polaroid, emulsioni, ma le prime, produzioni degli anni Ottanta, sono quelle che sono piaciute di più a me.
Gaston a cavallo (1986) realizzato in tecnica mista su tela e cornice, appartenente a un collezionista privato, fa parte di una serie di tele “equestri”, un gran ritorno alla classicità se vogliamo, dopo le sperimentazioni degli anni precedenti. Si tratta di una tela molto grande (300×450 cm) in stile pop art, dai colori brillantissimi, le cui forme non rispettano la gabbia della cornice, ma escono al di fuori, quasi a volersi prendere anche lo spazio della parete bianca.
A colpirmi poi, due tele quasi impressioniste: Gigli d’acqua (1980, 200×350 cm), anche questa parte di una serie molto ampia sul tema, una variazione intorno al fiore, pittura nervosa, colori cupi, lampi di magenta qua e là, forse a rappresentare il giglio. E, infine, la mia preferita, Acerbo (1987, 200×300 cm, acrilico e smalto su tela): un ritorno al figurativo sempre mediato dall’astrazione, una pittura sì di superficie ma rivolta al pubblico, tanto che invita quasi a essere toccata. I soggetti questa volta sono dei pomodori e un limone: a differenza dei gigli, le forme sono più evidenti, riconoscibili, i colori vividi, e la parola “acerbo” è scritta sulla tela in un azzurro che contrasta con il verde scuro e il profondo rosso. I quadri della serie sono di fatto nature morte dalle forti tonalità, sullo sfondo delle quali l’artista interviene con tratti di pittura acrilica sottili, ma molto materici. La frutta appare quasi sintetica, surreale.
Non ci dimentichiamo poi che Schifano è stato anche attore e regista: nel 1962, durante il suo primo viaggio a New York, rimane affascinato da molti grandi artisti dell’epoca, in particolare Jim Dine, Franz Kline e Andy Warhol. Nel 1964 partecipa alla Biennale di Venezia, durante la quale presenta la serie dei Paesaggi anemici cui poi seguiranno i dipinti dedicati al Futurismo con l’inserimento di citazioni alla storia dell’arte italiana. A questo periodo risalgono appunto anche i primi cortometraggi in bianco e nero e senza sonoro e, alla fine degli anni Sessanta, i primi lungometraggi. I più famosi: Umano non umano (1969), Souvenir e Vietnam (1967).
Un artista a tutto tondo dunque che vale la pena scoprire e riscoprire. Una nota d’attenzione: se visitate la mostra non vi fermate al piano terra – si ha l’impressione che sia tutta lì – ma proseguite anche ai piani superiori.