Maria Franco ha insegnato italiano, storia, geografia e educazione civica per trentacinque anni all’IPM di Nisida dopo essersi laureata in Filosofia e aver lavorato in giovane età come giornalista per l’Unità e per La Voce della Campania. Parallelamente all’insegnamento in carcere ha continuato a dedicarsi alla cultura, all’attivismo sociale e anche, in piccola parte, alla scrittura, coniando fra le altre cose il suo blog Conchigliette dove condivide recensioni di libri e pensieri sparsi. Nel 2021 è stato pubblicato il suo libro Conchiglie. Tra la Calabria e Nisida: memorie di una ragazza anni Cinquanta.
Maria Franco ha curato, inoltre, un laboratorio di scrittura per i suoi ragazzi per più di trent’anni, creando in base alle loro esigenze un metodo di scrittura creativa mediata, inclusiva, collettiva, dal quale sono nati diversi libri. Alcuni ragazzi hanno dichiarato di aver tratto benefici da questo tipo di lavoro. Nel 2011 è stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica dal Presidente Napolitano. L’abbiamo intervistata.
Alla luce dei suoi trentacinque anni di insegnamento, in cui ha fatto dell’ascolto, della cultura e dell’attivismo sociale sue colonne portanti, che idea si è costruita della cura?
«La società nel suo complesso non è sufficientemente attenta alle problematiche della crescita e questo rende ancora più complicato crescere in maniera positiva lì dove le condizioni ambientali, le condizioni familiari e i contesti di ogni genere sono più complessi e meno attenti. La cura è quindi un elemento essenziale del vivere in ogni fase dell’esistenza, ma sicuramente in quella iniziale e in quella finale lo è ancora di più».
Come prova chiunque lavori in carcere minorile a colmare in qualche modo i vuoti affettivi di ragazzi così giovani? Ascoltare i ragazzi equivale a farli sentire visti?
«Dipende da tante cose. La realtà che io ho conosciuto non è più la realtà attuale perché ogni anno e anche in meno di un anno la tipologia di persone che finiscono in un carcere minorile cambia, quindi bisogna stare attenti a modificare il proprio atteggiamento in relazione alla diversità dell’utenza. Detto questo, quello che ho visto è che i ragazzi hanno un bisogno enorme di essere ascoltati. Bisogna ascoltare prima di tutto il loro silenzio e la loro rabbia, i loro atteggiamenti di fastidio e di insofferenza, e poi le loro parole, perché le loro parole non arrivano sempre in maniera immediata, non arrivano sempre in maniera lineare. Quindi c’è un ascolto complessivo di quello che è l’atteggiamento del ragazzo. Ripeto, a partire dai suoi silenzi e atteggiamenti di insofferenza.
Se ci sono persone attente e disponibili è possibile che un ragazzo riconosca di essere compreso dal maestro di ceramica, un altro che si senta più compreso dall’educatore, un terzo che si senta più compreso dal maestro di teatro e così via. Voglio dire che c’è la necessità che tante persone che hanno competenze specifiche diverse siano attente ai messaggi vocali e non dei ragazzi. Ci sono stati ragazzi che hanno percepito di essere ascoltati, che hanno compreso e riconosciuto di aver trovato in carcere un ambiente di cura, un mini villaggio che poteva favorire la loro crescita. Questo naturalmente è un’ulteriore accusa alla società perché doveva avvenire prima».
Cosa ritiene si possa fare e in che modo per evitare che i minori finiscano in carcere?
«Attualmente il vescovo di Napoli, il cardinale e la diocesi di Pozzuoli sono impegnati in progetti educativi con altri enti e associazioni. Quello che penso è che ci voglia una grossa attività di rete tra tutti gli enti pubblici e privati, le associazioni che operano sui territori, ovvero le scuole, le parrocchie, i centri sportivi, i centri culturali e così via. Significa che tutti devono avere uno sguardo particolare nei confronti dei ragazzi e particolarmente di quei ragazzi che per i più disparati motivi non hanno le attenzioni che dovrebbero avere. Ci sarebbe bisogno di un’azione di cura collettiva. Non credo che un singolo ente possa salvare. La scuola da sola non può sopperire a tutte le problematiche psicologiche, emozionali, sociali, economiche di un ragazzo, così come non può farlo da sola la parrocchia o un centro culturale. È nell’insieme delle loro attenzioni e nel coordinamento delle loro attenzioni che si può creare un ambiente favorevole alla crescita».
Cosa potrebbe essere fatto per migliorare attualmente la condizione degli IPM in Italia?
«Essendo fuori da alcuni anni dall’IMP non conosco le attuali condizioni vigenti. In generale una città che ospita un carcere minorile deve sapere di averlo e deve farsene carico, non può lasciarlo a se stesso. Le dico questo in termini generali».
Secondo un rapporto di Antigone al 15 marzo 2023 i ragazzi detenuti in IMP erano 380. Nel maggio 2020, con l’emergenza Covid erano 280. Crede ci possa essere una soluzione alternativa valida per ragazzi così giovani?
«La legge attuale fa sì che il carcere sia assolutamente residuale. Quindi vengono esperite tutte le possibilità che vanno dall’inserimento in casa famiglia alle comunità. Il carcere non è la prima scelta per la nostra legge. È possibile che la situazione determinata dal Covid abbia influito negativamente e contribuito a peggiorare le condizioni di crescita e quindi a far aumentare poi oggi il numero dei detenuti. Tenuto conto che però questi numeri comprendono soprattutto ragazzi stranieri. Quindi è un problema globale. Anche Nisida, per quello che mi sembra di capire, ha una percentuale molto più alta di ragazzi stranieri di quando sono andata via e sono andata via solo quattro anni e mezzo fa».
Che effetto hanno sortito sui ragazzi i suoi laboratori di scrittura, realizzati insieme a tanti scrittori napoletani?
«È un tipo di lavoro a cui io credo molto. Ci ho creduto e ci credo tuttora. Per quello che ho potuto verificare, ci sono dei ragazzi e delle ragazze che ne hanno avuto dei benefici che loro stessi riconoscono. Resto comunque convinta che quel tipo di lavoro possa essere utile in generale. Chiaramente ogni luogo, ogni situazione deve trovare il suo modo. Però in linea di massima una tipologia di scrittura che possa essere collettiva, inclusiva, nel nostro caso mediata, consente a ragazzi che non hanno la scrittura come loro habitus normale di pensare, di esprimersi, di riconoscersi in quello che viene scritto, di trovare uno specchio e attraverso questo di crescere soprattutto da un punto di vista emozionale, ma anche del gusto della bellezza. E del riconoscimento che si è in grado di fare qualcosa che non si pensava assolutamente di essere in grado di poter fare. Sono tutti elementi, i sentimenti, la bellezza, l’autostima che possono consentire una riappropriazione di se stessi».
Cosa pensa di aver imparato lì?
«Quello che ho imparato di più sono due cose: una è di carattere generale perché ho avuto un impatto esistenziale con le problematiche sociali attuali della città. Non me le sono viste sui saggi, sulle letture o sugli articoli, me le sono trovate di fatto davanti a me. Un altro riguarda proprio il concetto di conoscenza, di cultura. Quello che ho sperimentato è che tutto ciò che avevo studiato e che ho continuato a leggere e studiare era indispensabile ma andava decostruito perché con un ragazzo di quel genere non ci si mette a fare una lezione di grammatica o una spiegazione puntuale su alcuni aspetti della lingua. Bisogna trovare un metodo che venga continuamente modificato, bisogna adeguarsi a una platea che continuamente si modifica. Se fossi stata in un liceo avrei sicuramente continuato a leggere il più possibile saggi su Leopardi, seguendo un programma ministeriale. Lì no. Devi giocartela costantemente, adeguarti. Gli obiettivi sono gli stessi, ma il come raggiungerli cambia».
Cosa pensa si possa fare fuori, nel momento in cui escono, per dare loro una possibilità economica e sociale di sostentamento?
«Quando va bene, per un ragazzo che vuole fare una vita diversa c’è un singolo pizzaiolo che gli offre un lavoro. Anche lì quello che manca è il contesto sociale, è la società. Uscire dal carcere e immettersi di nuovo in società è una cosa difficilissima che andrebbe sostenuta in tutti i modi. Ha scritto un ragazzo in uno dei libri nati dai laboratori di scrittura, dando il suo contributo pur essendo uscito da poco: Sto lavorando ma sto male perché non posso uscire con i miei compagni di lavoro perché mi troverei in alcuni luoghi con persone con cui non posso stare, i miei vecchi compagni mi schifano perché sono diventato un bravo ragazzo e sono solo. E aveva un lavoro. A 18, 19, 20 anni non si riesce a stare soli, è molto complicato. Bisognerebbe fare di più e meglio in maniera coordinata, integrata. Non lasciare le cose positive da sole, perché da soli non ce la si fa. Non ce la si fa ad abbracciare tutte le problematiche che una persona in crescita ha».
Riferendosi al titolo della serie tv Mare fuori ha scritto sul suo blog: Se avessi dovuto trovare un’accoppiata con mare riferita ai ragazzi di Nisida avrei detto: dentro, Mare dentro. Nella piccola isola, il mare è bellezza che entra nell’anima e dà un ritmo amico ad un nuovo cammino interiore. Quando escono i ragazzi, riescono a portarsi la consapevolezza di avere il mare dentro?
«Mare dentro perché i ragazzi hanno dentro di loro energie, mondi che non sanno nemmeno di avere, esigenze dello spirito oltre alle esigenze normali del muoversi, dell’agire. Esigenza di un respiro interiore che spesso non sanno di avere. Anzi, quasi sempre per non dire sempre. Dentro di loro ci sono dei mondi che quando cominciano a scoprire danno vita alla loro nuova avventura».
Un ragazzo, ex detenuto, ha detto che da lei ha imparato la gentilezza.
«Questo lo riferiva a me, ma avrebbe potuto riferirlo anche ad altri operatori. Un ragazzo che arriva da noi è molto probabile che non sia mai stato trattato in maniera normale, ecco. Solo che questa maniera normale è gentilezza, normale è cortesia, non l’ha mai avuta».
Una volta usciti, i ragazzi riescono a riconciliarsi con l’idea di un futuro possibile?
«Ci sono tanti ragazzi che usciti si sono riorganizzati, e che lavorano, hanno una famiglia, hanno ricostruito la loro esistenza. È l’obiettivo di chi lavora in un carcere. È un qualcosa che dà respiro».