Un coro di voci si alza spontaneo, forte, passionale come solo la musica popolare italiana sa essere. È un caleidoscopio di anime, di racconti, esperienze, ognuno con il proprio capitolo di un romanzo che è la vita di Claudio Lolli, cantautore bolognese, scomparso nell’agosto del 2018 ma tuttora presente con le sue canzoni. Narrano di lui gli amici di infanzia, gli artisti che ne hanno incrociato la poetica, persino gli strumenti che imbracciava di fronte alle piazze gremite. Destinatario di queste testimonianze è Marco Rovelli – musicista, scrittore e docente – che nel suo ultimo libro Siamo noi a far ricca la terra (minimum fax) offre ascolto a ognuna di esse, le rielabora e dà loro vita, poi, sulla pagina.
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La storia di Claudio Lolli è la storia dell’Italia ribelle, dell’Italia operaia che mal si relaziona alla borghesia, del Sessantotto e i movimenti politici degli anni Settanta. È la storia di Bologna, città natale del cantautore, epicentro di una scena musicale e culturale che fa da faro all’intero Paese, è la storia di un professore generoso e ottimista, voce degli ultimi, degli zingari felici.
Lo abbiamo intervistato, Marco Rovelli, per sentire direttamente dalla sua voce l’emozione di dedicarsi alla vita di uno dei cantastorie più amati della scuola cantautorale italiana.
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Una vita, quella di Claudio Lolli, che è già un romanzo, lui che ha raccontato tante altre storie, in musica come in prosa. Perché hai deciso di dedicargli un libro?
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«Per diversi motivi, in realtà. Il primo è, forse, il più scontato, ossia l’affetto che avevo per lui, c’era una conoscenza non profonda ma complice. Claudio Lolli, del resto, era una persona estremamente cordiale, gentile, e condividevamo una triplice identità: musicista, scrittore e insegnante. Lo scrivo anche nel libro di quando lo incontrai per la prima volta: è la persona che mi ha introdotto alla sua musica, non lo avevo ancora mai ascoltato, non ascoltavo i cantautori, venivo da una tradizione rock».
Cosa che, in parte, riguardava anche Lolli, formatosi con i Beatles e la Beat Generation.
«I miei riferimenti erano ovviamente diversi, il punk-rock anni Ottanta, però hai ragione. Il secondo motivo per cui ho deciso di scrivere questo libro riguarda ciò che dicevi tu, ossia che la sua vita è perfetta per un romanzo, racconta la storia di una generazione e di un mondo. Lolli ha diciotto anni nel Sessantotto, dunque è la narrazione di una collettività, una storia che si presta a essere raccontata, così come la sua poetica, che non è mai stata una poetica individualista. Claudio cercava di cogliere le immagini dei mondi che attraversava e da cui era attraversato e le restituiva in forma poetica. Il titolo del libro non è un caso, Siamo noi a far ricca la terra: c’è la dimensione del noi, che è fondamentale. Nella sua persona e nella sua opera ci sono diverse sfere che si coagulano. Il primo titolo a cui avevo pensato era di una sua canzone, sembrava perfetto: Vorrei farti vedere la mia vita. Poi, però, questo dava l’idea di una biografia classica – cosa che non è – e, appunto, c’era un io laddove nel titolo poi scelto c’è un noi».
A proposito di questa visione plurale, il tuo romanzo si compone di tante voci, dalle persone che incontrava, gli artisti, qualche compagno di scuola, fino agli strumenti musicali, le sue chitarre. Perché hai utilizzato questo espediente narrativo e quale voce racconta Claudio Lolli meglio delle altre?
«Dici bene, è un coro, pertanto non c’è una voce che lo racconta meglio di altre. Quella verità situazionale, dunque non oggettiva, è esattamente restituita da quella pluralità. Ho parlato con decine e decine di persone, cercato i vecchi compagni di scuola, ho fatto tanta ricerca, rintracciato la prima fidanzata, il compagno di banco del liceo o, ad esempio, il chitarrista del terzo album, Picchi, nessuno sapeva più che fine avesse fatto. Così sono venuto a sapere cose che mi erano completamente sconosciute e riguardavano i suoi primi passi artistici. È stato un lavoro divertente, molto intenso, è stato un po’ come entrare nella sua vita, il suo divenir Claudio, farne parte. A volte, mi sembrava pure di addentrarmi in territori in cui si può addentrare solo un analista. Ho costruito il libro come il ritratto di un artista da giovane: come si diviene un poeta, come un poeta costruisce la sua sensibilità. Questo, però, non bastava e, allora, mi sono messo a far parlare le sue chitarre, i personaggi delle canzoni: in questo modo, il Claudio poeta è diventato un personaggio letterario. Avevo già utilizzato il coro di voci in un libro precedente sulla comunarda Louise Michel, ma in questo caso ho preso spunto da Rosso Floyd di Michele Mari. L’avvertenza iniziale prende forma su quel modello, con la differenza grossa che Mari inventa dei fatti, mentre nel mio caso la base della confabulazione narrativa è un rigoroso raccontare accadimenti reali».
Che tipo di lavoro hai svolto – parlo dal punto di vista autoriale – per comporre i pezzi del puzzle?
«Si segue un’intuizione ancora prima di razionalizzarla. Una volta avuta l’idea di partire dal palinsesto delle voci, ho lavorato su quel canovaccio immaginando che ognuno dei protagonisti parlasse come seduto su una sedia in mezzo a una sala teatrale, con tante altre intorno disposte in circolo. Il ritmo affabulatorio l’ho costruito pensando a una dimensione intima, io che racconto a te che ascolti. Il ritmo della voce, la musicalità del testo sono decisivi in questa narrazione».
Ti chiedo, ora, un’analisi che va da Claudio Lolli ai giorni nostri. Esiste ancora la canzone popolare, la canzone di sinistra? Se sì, qual è oppure perché è sparita?
«Quel panorama musicale non c’è più perché è di un mondo che non c’è più, e ogni epoca porta con sé le sue modalità narrative. Stiamo parlando di cinquanta anni fa. Oggi è tutto diverso, non è che non ci siano movimenti musicali o artistici che potremmo connotare come impegno. Per quanto il concetto di impegno sia estremamente equivoco, io tendo a metterlo in discussione: si tratta di cosa ti chiama del mondo e di come lo restituisci in forma artistica. Dico questo da musicista, da cantautore: il cantautorato è un discorso di nicchia, una forma non più attuale. Che non significa svalutarlo: seguendo Nietzsche, l’inattualità vale forse più dell’attualità».
Scusa se insisto, però il salto da Lolli a – faccio un nome di quelli che viene considerato impegnato – Fedez a me pare enorme e non in senso positivo.
«Negli anni Settanta esisteva un movimento di massa che nel linguaggio ideologico del tempo si definiva contropotere, con le sue strutture anche produttive e distributive. Oggi non esiste più, oggi viene fatto passare per oppositore Fedez che invece è completamente dentro il sistema. È chiaro che sentiamo la mancanza di un sentire comune, di un movimento collettivo e, da musicisti, di una struttura produttiva e distributiva. Ma bisogna fare i conti con quello che c’è, non rimpiangere il passato».
C’è un tema, nel libro, che mi sembra ritorni spesso, quello della formazione. Si parte da un’insegnante di Claudio Lolli che abbraccia la sua necessità, la sua passione comunista, passando per i consigli di lettura che anche voi vi scambiavate, fino ai movimenti politici, in cui il confronto era vitale. Quanto ha pesato nella stesura di questo libro e che differenze ci sono con l’oggi?
«La formazione era, innanzitutto, la terza identità di Claudio e – per certi versi – anche la prima. Era veramente appassionato a questo lavoro di relazione e di cura, quando andò in pensione fu come un lutto. Sono d’accordo con te che la formazione generazionale che passa dalla contiguità dei corpi sia fondamentale, decisiva, è l’affetto spinoziano che ti cambia la vita. Incontri un flusso che ti sposta da dove sei. Da insegnante mi è capitato molte volte di vedere dei ragazzi che si lasciano spostare lo sguardo, che non vuol dire votarli alla tua idea ma offrirgli una visione sul mondo critica, fargli comprendere che ogni cosa può essere vista da tante prospettive oltre la propria. Gli incontri decisivi, però, non sono soltanto a scuola, magari avvengono altrove. La nostra generazione si riuniva alle manifestazioni, si riconosceva, avveniva un vero e proprio contagio ed era estremamente produttivo, oggi manca. I giovani non hanno questa modalità, è vero, ma bisognerebbe capire le loro, senza giudicarli. Claudio si lasciava contagiare dai giovani, basti pensare che urlava sono ottimista di fronte al movimento no global. E sul pessimismo di Claudio, apro questa parentesi, c’è una leggenda nera, quella che fosse il cantore dell’angoscia: invece no, lui cantava la vita».
Altra occasione di contagio era la sua Bologna…
«Claudio Lolli è il vero cantautore bolognese. Ha sempre vissuto in pieno centro, nessuno come lui rappresenta Bologna, città straordinaria in cui si sono incontrate tante dinamiche che vanno oltre Bologna stessa. È una città ibrida, non è metropoli ma non è paese, ha in sé caratteristiche diverse che la rendono unica».
Voglio concludere con l’ultima voce che chiude il libro, la tua. Chi era per te Claudio Lolli?
«È stato una persona con cui ho passato dei momenti belli. Molto di ciò che ha composto non lo conoscevo prima di costruire il libro. Scrivere questo romanzo ha significato fare un’esperienza, entrare nel profondo di una persona che apprezzavo tanto, di scambiarsi lo sguardo. Ho pensato fosse un uomo talmente ricco, come dice anche il titolo, che la sua storia dovesse essere raccontata».