Era il giugno del 2011 quando i cittadini italiani furono chiamati a pronunciarsi su quattro referendum abrogativi: tra questi, due quesiti che riguardavano la gestione dell’acqua e del servizio idrico. Formalmente, l’acqua è sempre stata un bene demaniale, tuttavia nel corso degli anni lo stratagemma utilizzato per privatizzare il settore è stato quello di considerare separatamente l’acqua in senso stretto, come bene, e la gestione dei servizi idrici, che sono stati invece collocati nell’economia di mercato. Ciò ha comportato la possibilità per le imprese private e per quelle a capitale misto di trarre profitto dalla gestione di un bene primario e pubblico come l’acqua.
Addirittura, nel 2008, il Governo Berlusconi introdusse una norma che di fatto rendeva prioritario il ruolo dei privati e la loro remunerazione. Con il referendum del 2011 si tentò di abrogare tale ultima norma, e di impedire i profitti sulla vendita dell’acqua. La partecipazione fu massima e la volontà popolare molto chiara: eppure da allora la situazione è rimasta pressoché invariata, con una gestione che nella maggior parte dei casi è mista. Il lato peggiore è che i servizi idrici spesso peggiorano, mentre le tariffe aumentano e i privati traggono enormi profitti da un bene comune.
A Napoli, però, la prima giunta de Magistris dopo il referendum diede vita a un esempio virtuoso di gestione pubblica dell’acqua, trasformando la società per azioni ARIN nella società speciale di diritto pubblico ABC (Acqua Bene Comune). Il Sindaco Manfredi ha deciso, invece, di mettere fine a questo esperimento con la delibera 266/2024 che snatura l’ente e che a lungo termine comporterà sicuramente un cambio radicale nella gestione dell’acqua.
Tra le novità più rilevanti, infatti, l’eliminazione dal consiglio di amministrazione dei due componenti designati dalle associazioni ambientaliste: si trattava di una presenza fondamentale, di tecnici e professionisti, oltre che gratuita. Viene anche modificata la gratuità della carica del presidente e vengono stanziati circa 78mila euro annui per la remunerazione di un consiglio di amministrazione nominato dal ceto politico, con tutto ciò che ne deriva in termini di influenze e potenziali conflitti di interessi.
Ancora, il ruolo dell’osservatorio sull’acqua – di cui fa parte anche una rappresentanza degli utenti del servizio e dei lavoratori – viene ridimensionato poiché le sue deliberazioni non saranno più vincolanti, dunque senza alcuna possibilità di controllo sull’azienda. Inoltre, viene eliminato l’obbligo della stesura di un bilancio che comprenda elementi di tutela ambientale della risorsa idrica e non solo di gestione economica della stessa. Secondo tante autorevoli voci, non si tratta che dell’inizio di una trasformazione nella gestione dell’acqua che comporterà, tra non molto, il ritorno a una società per azioni con apporto e guadagno dei privati.
Del resto, l’esclusione delle comunità e degli utenti dalle scelte che li riguardano è un modus operandi che sta diventando tipico della attuale giunta napoletana. È quanto avvenuto anche con la firma del Protocollo d’intesa per la realizzazione degli interventi inseriti nel programma di risanamento ambientale e rigenerazione urbana del comprensorio di Bagnoli-Coroglio. Manfredi, escludendo i comitati di quartiere che da anni si battono per una riqualificazione che restituisca l’area ai cittadini, riceve dal governo 1,2 miliardi, oltre al un vero e proprio condono su quanto è stato fatto in questi anni in violazione delle norme urbanistiche: non ci sarà, a differenza di quanto precedentemente sbandierato, un ripristino della morfologia di costa né una spiaggia pubblica.
Intanto, le risorse pubbliche vengono sperperate alla ricerca di passerelle politiche a farne le spese, senza essere consultati né ascoltati, sono come sempre coloro che in questi anni hanno sopportato le conseguenze dell’inquinamento, dell’amianto, dell’abbandono istituzionale.
Da un lato, un atteggiamento tutto italiano che vede nella privatizzazione la soluzione agli eventuali malfunzionamenti nella gestione pubblica dei beni comuni (e quanto è avvenuto in questi anni con le concessioni balneari ne è la prova); dall’altro il tentativo, locale e nazionale, di allontanare i cittadini dalle scelte che li riguardano. A mano a mano che la distanza aumenta, la consapevolezza diminuisce e la comunicazione istituzionale è sempre più falsata. Questo è quanto di più lontano da una democrazia.