Mai più schiavi recita lo striscione affisso dagli operai della Texprint di Prato, in sciopero da ormai quaranta giorni e in presidio permanente da venti, per chiedere che sia finalmente rispettato il contratto collettivo nazionale previsto per il settore e con esso la loro dignità. Costretti a turni di dodici ore, senza il riconoscimento di alcun giorno libero né ferie, e soggetti a contratti di apprendistato o ad altri tipi di escamotage per evitare qualsiasi forma di tutela nei loro confronti, hanno deciso di scioperare e di portare avanti a oltranza un sit-in non violento dinanzi ai cancelli dell’azienda a conduzione cinese per impedire il carico e lo scarico merci. A sostenere la lotta degli operai – in gran parte pachistani e bengalesi – è il sindacato Si Cobas, le cui accuse sono state raccolte dalla Prefettura che, dopo aver accertato un legame con la criminalità organizzata, ha notificato alla Texprint un’interdittiva antimafia che le impedisce di siglare contratti pubblici. Lo scorso anno l’impresa era riuscita a ottenere finanziamenti per quasi 400mila euro.
Mentre il provvedimento veniva notificato, però, le forze dell’ordine in tenuta antisommossa sono intervenute per immobilizzare, strattonare e ammanettare gli operai. L’Ispettorato del Lavoro aveva già appurato la legittimità della loro azione, avendo accertato le irregolarità e lo sfruttamento cui sono soggetti, convocando i titolari dell’azienda innanzi alla Prefettura per tentare una mediazione. Questi, dal canto loro, hanno rifiutato qualsiasi trattativa e hanno offerto come unica possibilità la risoluzione dei rapporti di lavoro e il riconoscimento di una somma di denaro per i lavoratori iscritti all’associazione di categoria, quelli che, per intenderci, hanno avuto il coraggio di denunciare. L’intenzione è chiara: fare fuori il sindacato e qualsiasi forma di dissenso, continuando a operare come se i diritti degli operai fossero delle concessioni, riconoscibili o meno a seconda della bontà d’animo del datore di lavoro. Basti pensare che, di recente, nella stessa azienda uno dei dipendenti ha perso una falange e altri vari infortuni si sono registrati, con le vittime che hanno ricevuto pressioni affinché in ospedale dichiarassero circostanze diverse da quelle reali.
Quanto accaduto a Prato ci ricorda non solo che la precarietà è diventata ordinaria sui luoghi di lavoro, ma anche quanto essa sia stata esasperata dall’emergenza sanitaria in corso, che è presto diventata emergenza economica e sociale. La conferma ci giunge dalle ennesime morti avvenute pochi giorni fa per il crollo di una delle assi portanti di un palazzo a San Pio delle Camere (L’Aquila), nel quale hanno perso la vita due operai che probabilmente erano privi di qualsiasi protezione atta a prevenire o mitigare gli effetti dell’incidente. Le morti sui posti di lavoro nell’ultimo anno sono state più di mille e, al peggioramento delle condizioni e della sicurezza dei lavoratori, si accompagna un aumento della repressione di qualsiasi richiesta di tutele e diritti da parte di questi ultimi. È quanto si è appena verificato a Prato, ma anche a Piacenza negli stessi giorni, dove a essere repressa è stata una protesta vittoriosa attraverso la quale i facchini della TNT sono riusciti a evitare i licenziamenti e a ottenere migliori condizioni economiche, sostenuti anche stavolta dal sindacato Si Cobas.
Alcuni di loro, infatti, sono stati raggiunti da revoche del permesso di soggiorno, altri invece sono stati indagati per violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale e le loro dimore perquisite nel cuore della notte. A due sindacalisti sono stati notificati provvedimenti di arresti domiciliari. A tutti, inoltre, sono state comminate multe per un totale di 13mila euro per violazione delle misure anti-COVID. I provvedimenti sono frutto dell’applicazione dei Decreti Salvini, ormai strumenti principali di repressione del dissenso, oltre che di manifestazioni anche pacifiche. Lo avevamo già visto nel 2020 a danno dei manifestanti della Tintoria Superlativa di Prato, non solo operai, ma chiunque si fosse recato sul posto per esprimere la propria solidarietà.
I governi cambiano ma, intanto, l’atteggiamento nei confronti di legittime richieste di rispetto e di impiego dignitoso resta lo stesso: indifferenza e in molti casi repressione. Fino a quando il lavoro sarà considerato un lusso e non un diritto, i datori e le imprese continueranno a spadroneggiare, certi della loro intangibilità di fronte alla legge e allo Stato.