Può la maggioranza di governo di un Paese regolare le proprie scelte politiche in base al calendario degli impegni elettorali? In Italia, dove tutto è possibile – e dove ci si reca ai seggi un giorno sì e l’altro pure – non solo ciò accade, ma si ripete sistematicamente. La corsa al voto in cui i partiti che formano il nostro Parlamento sono costantemente impegnati è la scusa perfetta per adoperarsi nell’unica pratica nella quale hanno sempre dimostrato di saper eccellere: l’inerzia. E non fa nulla se tale prassi ha già certificato miseri risultati e miseri rappresentanti: il popolo aspetta, la gente è assuefatta, nulla – all’orizzonte – rema nella direzione contraria della rivoluzione.
Il salto nel nuovo anno deve aver ricordato ai protagonisti della maggioranza – M5S, PD, Italia Viva, LeU – che, ormai, da sei mesi, la diciottesima legislatura ha cambiato indirizzo, o quantomeno è ciò che era lecito aspettarsi da un binomio non più guidato dalla Lega di Matteo Salvini, ma da una massiccia componente democratica di cui l’ex Ulivo guidato da Zingaretti è, senz’altro, la locomotiva. Ecco spiegato il ritorno in auge del dibattito circa i Decreti Sicurezza firmati dall’ex Ministro dell’Interno di verde vestito, bandiera dell’azione governativa leghista e spina nel fianco dell’attuale esecutivo, in particolar modo per le normative in fatto di accoglienza, porti chiusi e concessione del diritto d’asilo.
Tutti d’accordo, dal Premier Giuseppe Conte ai leader di maggioranza: la legge, così com’è, è troppo rigida, va rivista e modificata, il cambio di passo rispetto al vecchio governo va dimostrato riscoprendo la natura solidale del tricolore. A piccole dosi, però. Già, perché se è vero quanto scrivono i colleghi de La Repubblica, il testo di revisione del Decreto Bis sarebbe sulla scrivania del Ministro Lamorgese già da due mesi, dunque, cosa si sta aspettando per attuare le correzioni?
La risposta la sappiamo tutti ed è la stessa che l’asse giallo-rosso ha offerto anche in merito a un’altra questione ostica: il processo a carico di Matteo Salvini per il caso della nave Gregoretti. Tutto è da rinviarsi a dopo le elezioni di domenica 26 gennaio in Emilia-Romagna, quando il governo giocherà una partita fondamentale per la propria sopravvivenza. Dovesse fallire l’offensiva al leader del Carroccio anche nella regione più rossa del Paese, infatti, la crisi tra le forze di maggioranza sarebbe quasi inevitabile, quantomeno gli equilibri tra i banchi di Montecitorio e Palazzo Madama si incrinerebbero e non di poco, con il centrodestra (quasi) legittimato a chiedere di staccare la spina.
Impossibile non aprire a un’amara considerazione, come già ha fatto anche il capo delle Sardine, Mattia Santori: «Manca discontinuità, come quando ai tempi di Berlusconi la sinistra non faceva la legge sul conflitto di interessi». Appunto, dov’è il cambio di tendenza rispetto alle politiche generate quando Di Maio e Salvini formavano la coppia – di fatto – più felice della scena istituzionale italiana? In cosa differisce il governo 5 Stelle-PD dal precedente caratterizzato dalla presenza fagocitante della Lega?
Se è vero che le piazze divenute famose in questi ultimi mesi per la presenza di migliaia di persone richiedono, sì, l’allontanamento dai partiti tradizionali, ma anche e soprattutto il rispetto della Costituzione, l’antifascismo, l’accoglienza come valore umanitario, perché la maggioranza non pensa di farsi portavoce di questo sentimento e dimostrare di meritarne la fiducia? In fondo, sembrava nata proprio con questo scopo. Altrimenti, che senso ha avuto – lo scorso agosto – non raggiungere il lido Papeete e unirsi alla festa?
Invece, il Ministro degli Esteri, con i Segretari PD e Italia Viva – Di Maio, Zingaretti, Renzi –, cincischia sui temi di competenza nell’unica preoccupazione di non perdere ulteriori consensi in favore de La Bestia. Eppure, a rigor di logica, dovessero dimostrare di saper guardare a quelle piazze, intercettarne le domande e offrire risposte adeguate, i consensi potrebbero persino crescere esponenzialmente. Che gran parte della gente d’Italia sia stanca, sfiduciata, impaurita, è un dato di fatto, tuttavia, seguire il predatore sul proprio territorio di caccia può portare la preda a un’unica, annunciata fine.
La sinistra – o pseudo tale –, però, si sa, dai propri errori non è capace di trarre alcun insegnamento, anzi, più sbaglia e più sembra godere di quei fallimenti al fine di autodistruggersi. Chi non ricorda il no allo Ius Soli dell’ultima votazione a firma Gentiloni? Il criterio per cui, oggi, le modifiche al Decreto Sicurezza giacciono ancora nei cassetti della scrivania del Viminale e, quando non sarà possibile più rinviarne il giudizio – come invece si sta tentando di fare per il processo a Salvini, offrendogli ancora una volta l’assist per aizzare le folle nazionaliste –, sortiranno l’effetto di un solletico fatto a un bambino, è lo stesso che scoraggiò allora i dem a cavalcare un provvedimento che avrebbe dovuto essere in linea con la propria natura. Tutti sappiamo com’è andata. Solo il PD sembra non ricordarlo.
Nessuno sa, o tutti evitano scientemente di scrivere, cosa riguarderebbero – all’atto pratico – le migliorie da apportare al testo redatto dall’ex Ministro leghista. A tal proposito, suona ancora più imbarazzante il discorso di Nicola Zingaretti al conclave dei democratici: «Ha detto bene Franceschini e ha fatto bene a dirlo. Si riparte dall’accordo di governo e poi il Parlamento deciderà», ha commentato il Segretario. «Partiremo dalle osservazioni di Mattarella e in Parlamento potremo intervenire, ci sarà spazio per segnare un cambiamento di prospettiva». In pratica, stiamo a guardare cosa succederà. Compromettersi non è possibile, non più di quanto non lo siano già. «Siamo figli di un compromesso che tutti abbiamo accettato il giorno del giuramento del governo». Può entrare il prete per l’estrema unzione.
Un compromesso che uccide non certo l’anima del PD – già da un bel pezzo venduta alle sole logiche dei mercati – ma la speranza di quanti ancora si aspettano dal partito figlio del PCI politiche vicine ai lavoratori, al mondo della scuola, ai pensionati, a tutto ciò, insomma, a cui ha voltato la faccia. Dicevano che Renzi non ascoltasse nessuno e certamente avevano ragione. Ma il pressappochismo di questa fase, la vacuità di un governo in grado soltanto di farsi dettare l’agenda dal profilo Twitter di Matteo Salvini, dai suoi hashtag e dalle tendenze dei social, non gode di maggior libertà o dignità.