Spunta spesso e (mal) volentieri l’ombra della mafia sulle elezioni italiane, siano esse politiche – come nel caso del prossimo voto del 4 marzo – o tornate regionali e amministrative. La presenza dei clan nelle liste dei principali partiti che compongono la scena politica nostrana, che si tratti di protagonisti in prima persona o nascosti dietro un nome di rappresentanza, è sempre più massiccia e i risvolti giudiziari degli ultimi anni, così come le recenti inchieste giornalistiche quale quella Fanpage, sottolineano con forza l’esistenza e la preoccupante dimensione del fenomeno.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa commesso per un lasso di tempo assai lungo da Marcello Dell’Utri, è espressivo della sua particolare pericolosità sociale: pronunciava così la sentenza del 2014 della Cassazione che condannava a sette anni di carcere l’ex senatore di Forza Italia e braccio destro di Silvio Berlusconi. Per l’organo giuridico di ultima istanza delle sentenze emesse dalla magistratura ordinaria, Dell’Utri, dal 1974 al 1992, era stato il garante decisivo dell’accordo tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, un ponte, quindi, tra l’imprenditore milanese e la malavita organizzata che aveva garantito sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro a favore della famiglia siciliana. «A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi», diceva Totò Riina intercettato tra le sbarre.
Vent’anni di soldi in nero, vent’anni di fatti su cui tuttora indagano le procure con accuse incredibili, ancor più oscure se si ragiona sulla risonanza mediatica che giornali e tv continuamente offrono a Berlusconi, sospettato, infatti, di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Eppure, a eccezione di Alessandro Di Battista che, addirittura, si è recato ad Arcore a inizio febbraio, nei pressi di Villa San Martino, a leggere proprio la sentenza di cui sopra, e dei colleghi de l’Espresso e Il Fatto Quotidiano – non a caso apostrofato da B. come il Falso – nessuno pare dar peso al curriculum dell’ex Premier, macchiatosi anche di frode fiscale e accuse di corruzione in atti giudiziari, nonché ancora coinvolto nel caso olgettine.
Il popolo italiano, al contrario, per un folle gioco di autolesionismo, quasi sembra non veda l’ora di affidare il proprio futuro a chi ha già provveduto a bruciarglielo, radendo al suolo ogni forma di speranza con il suo passaggio nel recente passato.
E se l’assidua presenza di Berlusconi sulle reti tv appare inconcepibile alla luce dei suoi, quantomeno, scuri rapporti con Cosa Nostra, c’è chi, come Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova, riesce a eludere la giustizia sia per il suo passato che per il suo presente legato al fascismo.
«È a conoscenza di qualche fatto o circostanza che potrebbe far luce sull’uccisione di Mattarella?»: quest’unica domanda avrebbe voluto rivolgere a Fiore il giudice Giovanni Falcone, tentando di indagare sull’omicidio di Piersanti Mattarella, l’allora governatore della Regione Sicilia e fratello dell’attuale Presidente della Repubblica. Il leader di FN, però, all’epoca era all’estero, a Londra, in un periodo di latitanza che lo tenne lontano dal carcere per una condanna in via definitiva a cinque anni e mezzo di reclusione per banda armata e associazione sovversiva.
Erano i cosiddetti anni di piombo e del gruppo armato di estrema destra, Terza Posizione, facevano parte, proprio come Fiore, gli uomini che si erano macchiati della strage di Bologna del 1980. Giovanni Falcone, a quei tempi, indagava su un presunto scambio di favori tra i terroristi neri e la mafia di Cosa Nostra, patti che comprendevano, oltre la strage emiliana, anche l’uccisione di Mattarella e l’evasione dal carcere di Ucciardone di Pierluigi Concutelli, terrorista, condannato all’ergastolo per il delitto del magistrato Vittorio Occorsio. Era la fine del 1979 e proprio di quell’evasione, secondo Falcone, si sarebbe interessato l’attuale candidato estremista. Purtroppo, non riuscì mai a interrogarlo a causa della sua fuga.
Fiore rientrò in Italia solo nel 1999, quando la sua condanna non fu più eseguibile per scadenza dei termini, quindi per l’assurda norma della prescrizione, fondò Forza Nuova, il partito di estrema destra che si ispira alle ideologie del Ventennio fascista e che si è spesso distinto per propagande contro le etnie straniere presenti sul territorio nazionale e la comunità LGBT.
Sempre i giornalisti del quotidiano del direttore Marco Travaglio hanno recentemente dedicato agli adepti del movimento razzista di Fiore un articolo per ripercorrerne storia e metterne in mostra i legami poco chiari con movimenti violenti e – torniamo sempre lì – mafiosi.
Possibile mai che laddove lo Stato non riesca o, deliberatamente, eviti di intervenire per sciogliere le formazioni neofasciste come da Costituzione, limitare la libertà di soggetti coinvolti in processi per mafia o, peggio ancora, inibire alle cariche pubbliche così come ai passaggi di propaganda in TV i condannati per i rapporti con i sistemi malavitosi, le persone non siano in grado di recitare la parte degli amministratori di se stessi, dei garanti di quelle cauzioni che – speriamo – chiederebbero a chiunque sia chiamato a determinare della propria quotidianità, della propria economia, della propria esistenza?
Se un sistema c’è, se il rapporto Stato-mafia non è mai stato sciolto, se la collusione di istituzioni, mezzi d’informazione, enti di credito, con i clan fosse realmente – come troppo spesso appare – più forte di ogni legge scritta a garanzia della nostra libertà, è davvero questo il Paese che ci rappresenta?
Alle urne l’ardua sentenza. A noi il diritto di pensare che un’altra via, quella indicata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia davvero l’unica che ci renderebbe fieri di questo Stivale ormai in preda a una triste e nera deriva.