Tra i tanti problemi che affliggono la Capitale, l’attenzione è tutta riservata alle buche, ai rifiuti, ai gabbiani, ai topi e agli autobus di linea. Un’attenzione pienamente legittima dal momento che si tratta delle difficoltà che i cittadini percepiscono come vicine e con le quali hanno a che fare in ogni momento della loro giornata. Sembrano passati, invece, i tempi in cui non si parlava d’altro che di Mafia Capitale, quando venivano i brividi all’idea che quelle due parole potessero essere messe l’una al fianco dell’altra. Eppure, gran parte delle complicazioni presenti oggi a Roma è riconducibile proprio a una gestione poco trasparente – per usare un eufemismo – della città più importante d’Italia. Sarebbe interessante riparlarne, dunque, soprattutto all’indomani della decisione della Corte di Cassazione che lo scorso 22 ottobre ha messo la parola fine alla questione, riconoscendo l’associazione a delinquere semplice e non quella mafiosa.
Ora, entrare nel merito della sentenza sarebbe al momento azzardato in quanto le motivazioni non sono state ancora depositate, tuttavia è bene chiarire di chi e cosa stiamo parlando: nel dicembre del 2014 venne alla luce un sistema criminale, radicato nel Comune guidato all’epoca da Ignazio Marino, che vedeva al proprio vertice Massimo Carminati, recidivo delinquente, e Salvatore Buzzi, capo di più di 1500 cooperative. La particolarità di questo sodalizio consisteva nel distinguersi rispetto alle associazioni a delinquere classiche da cui aveva sì appreso il vincolo di appartenenza ma rispetto alle quali era distante nelle modalità di agire: i due, infatti, oltre ai classici giri di usura, estorsioni e traffico di stupefacenti, guardavano ai grandi affari che interessavano imprenditori e istituzioni per cui i primi tendevano a ottenere dai secondi appalti senza che potessero essere ostacolati da alcuna forma di concorrenza. Il mezzo tramite il quale raggiungere questi risultati non era più l’intimidazione bensì la corruzione, anche se la violenza era considerata l’extrema ratio.
Non è un caso che Buzzi disse al Nero che si guadagnasse più con i migranti che con la droga, a testimonianza di come il duo avesse attenzione verso tutto ciò che passava tra le mani dell’apparato burocratico del Comune e che poteva permetter loro di lucrare: nel 2015, infatti, il GUP di Roma parlò di un’occupazione istituzionale effettuata dall’organizzazione criminale nei confronti dell’intera struttura comunale e delle sue municipalizzate nel corso della precedente amministrazione, garantendosela anche dopo il cambio di maggioranza con lo stesso metodo e con un’intensa ed egualmente efficace attività costruttiva. Ecco che la questione si pone sul piano giuridico dal momento che l’articolo 416 bis del Codice Penale precisa che l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e nel caso di Roma Capitale, come già specificato, la violenza veniva utilizzata come ultima opzione. Una considerazione che ci riconduce al vero problema: siamo ancora in grado di affermare con certezza che si possa parlare di mafia solo laddove vi sia l’intimidazione?
Ciò che sembra emergere è un’antica concezione di criminalità organizzata, ossia quella degli anni Novanta, i cui protagonisti erano dediti a minacce e soprusi tramite cui riuscivano a imporsi. Il caso di Roma, invece, ci dimostra molto chiaramente che le organizzazioni mafiose agiscono per mezzo di un controllo ramificato e autoritario sulle attività locali e grazie a sulle istituzioni. A essere cambiato, dunque, è il modus operandi delle mafie che hanno raggiunto una dimensione capitalistica che le rende distanti dalla strada e vicine al mondo del business raccogliendo risorse economiche che derivano da attività illegali, riutilizzate poi in altri traffici altrettanto illeciti, riciclando tale capitale e, specialmente, investendo quanto riciclato in attività legali correlate al ramo economico-finanziario.
L’ancoramento a un’antica idea di mafia è dimostrato anche dalla difficoltà che spesso si ha nel riconoscere la presenza delle associazioni criminali in realtà del Centro e del Nord Italia: certamente esse trovano le loro storiche origini in Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, ma proprio il fiuto criminale per gli interessi le ha portate a espandersi e a radicarsi altrove, mantenendo sempre dei contatti con le terre di provenienza. In particolare, è sempre risultato problematico riconoscere la presenza mafiosa nella Capitale, come già ai tempi della Banda della Magliana nei confronti della quale non si riuscirono a dimostrare i presupposti richiesti dal 416 bis. Di fronte a consorterie criminali che si spartivano il controllo del territorio, la stessa Corte di Cassazione ha parlato recentemente di mafia delocalizzata, ovvero una mafia silente che, pur non trovandosi nella propria terra d’origine, riesce a farsi riconoscere.
Questi elementi hanno indubbiamente impedito che si formasse la percezione dell’esistenza delle malavita anche al di fuori delle regioni meridionali. Eppure, di mafia a Roma – per restare nella Capitale – si è tornato a parlare anche nelle ultime settimane, dopo i roghi che hanno interessato alcune attività del quartiere Centocelle, tra cui La Pecora Elettrica, libreria dichiaratamente antifascista, per i quali gli inquirenti non escludono ipotesi riconducibili alla criminalità organizzata.
È arrivato il momento, dunque, di cambiare l’approccio culturale verso le mafie e di assumere la consapevolezza che esse non sono –soltanto – quelle del pizzo e del sangue sull’asfalto bensì un sistema ramificato alla continua ricerca di referenze politiche che mira a imborghesirsi sempre di più. Ecco perché a Roma, e non solo, è tempo di chiamare le cose con il loro nome.