S’è levato la cravatta. Lo scorso mercoledì, Luigi Di Maio ha rassegnato le dimissioni da capo politico del M5S: una scelta su cui circolavano voci già da settimane e che dà l’idea del momento che stanno vivendo i suoi. Soprattutto, una scelta inevitabile – che su questo giornale ci eravamo permessi di suggerirgli da tempo – di cui, forse, ha preso atto troppo tardi e con troppa poca consapevolezza.
Sia chiaro: i torti del giovane cittadino di Pomigliano d’Arco non dipendono assolutamente dal suo passato come steward del San Paolo – di cui poco ci importa – né da suoi errori grammaticali, che certamente sono imbarazzanti per chiunque ricopra incarichi di elevato prestigio ma che non possono da soli costituire il giudizio su di lui. Per quanto negli anni abbia sempre cercato di rimarcare le distanze con i suoi avversari politici, infatti, il suo errore principale è da ricercarsi nell’uso esasperato dell’io, un vizio piuttosto comune nella classe dirigente attuale e del quale farebbero bene a privarsi tutti.
Persino nel discorso da dimissionario, Di Maio ha fatto continui riferimenti a ciò che nel tempo ha costruito, parlando spesso in prima persona, come già fin troppe volte. Riferimenti che danno l’idea non di un leader, ma, appunto, di un capo che sente la necessità di affermarsi e di ribadire il proprio operato. Questo parlare di se stessi, però, non fa mai il bene di una comunità, come ha dimostrato anche Matteo Renzi, principale avversario degli anni addietro, nonché attuale alleato di governo, caduto nello stesso errore – da cui sembra ancora non essersi ripreso –, circondatosi di fedelissimi yes-man che non potevano oscurarlo.
Ma nel suo commiato, l’ex Vicepresidente del Consiglio ha parlato anche di fiducia. Tuttavia, nelle scelte come nelle parole, soprattutto nel periodo governista, ha fatto sembrare il contrario, accentrandosi il potere e impuntandosi – fino alla vigilia del Conte bis – per la poltrona da Vicepremier. Sempre a proposito di fiducia, inoltre, troppo poca è risultata quella riposta verso chi, come De Falco, ha tentato di metterlo in guardia dall’insidia degli alleati e dalle sembianze destrorse che il MoVimento stava assumendo, e troppa, invece, verso chi ha approfittato della natura ibrida, a tratti priva di identità, dei grillini. Come Salvini, che nella sua esperienza di governo ha fatto di tutto per logorare i Cinque Stelle da vicino, nonostante Di Maio in primis lo difendesse, lo salvasse, lo compiacesse, mentre tutti sapevano di essere in trappola. Tutti, o quasi.
In altri momenti, invece, le parole del pupillo di Beppe Grillo hanno evocato fantasmi berlusconiani nei ripetuti passaggi in cui sono stati accusati i traditori, altra categoria tanto cara alla politica e soprattutto all’ex Cavaliere: ricorderemo tutti che secondo B., se il suo centrodestra in vent’anni non è riuscito a portare a termine le riforme, è stata colpa dei vari Fini, Follini e Casini. Ora, quindi, riguardate le immagini e osservate Di Maio mentre parla di chi lo ha pugnalato alle spalle: distoglie lo sguardo dai fogli, fa una piccola pausa e alza lo sguardo, senza mai nominarli ma facendo intuire che si tratta di Paragone, di Spadafora e degli ultimi esodati che hanno messo se stessi prima del MoVimento e sono alla ricerca di visibilità.
In cinquantuno minuti di disquisizione, non c’è stata una parola, che fosse una, sui propri personali errori, su cosa non ha funzionato a causa sua, sulle strategie sbagliate che hanno fatto perdere al partito venti punti in un anno e mezzo. Nel suo rivendicare la natura post-ideologica del MoVimento, perché non ha ammesso di non aver fatto nulla per impedire il ripiegamento sulle posizioni salviniane? Perché non ha chiesto scusa per decreti sicurezza, per giunta approvati giusto qualche giorno prima che Salvini tagliasse la corda? Perché da Ministro del Lavoro non ha avanzato alcuna proposta a tutela dei giovani, lui che ha poco più di trent’anni? Perché non ha ammesso di aver fallito nell’organizzazione strutturale e territoriale della sua fazione? Di Maio pensa davvero che sia stato un bene non sostenere Bonaccini alle Regionali in Emilia-Romagna, rischiando di far vincere la Borgonzoni? Perché sta commettendo lo stesso errore alle suppletive per il collegio uninominale di Napoli, non appoggiando la candidatura di Sandro Ruotolo sostenuta da un’ampia coalizione progressista? E per quale motivo dopo la disfatta alle Elezioni Europee ha fatto finta di niente, senza fare una seria analisi della sconfitta?
Sarebbe stato meglio capire in quel momento che le cose stavano prendendo una piega sbagliata e fermarsi quantomeno per riflettere, prendendosi non solo lui – ma soprattutto lui – la responsabilità del tracollo. Ci troviamo, invece, alla vigilia di una tornata elettorale decisiva e, questa volta, Di Maio non vuole sentire sulle sue spalle il peso di una débâcle già annunciata per cui ha scelto di farsi da parte il giorno prima. Probabilmente non andrà a inseguire altri progetti come il suo compagno Di Battista, ma sappiamo per certo che nei ringraziamenti finali non ha inserito né lui né Roberto Fico, tantomeno li ha mai nominati nel resto del discorso, a differenza di Grillo e Casaleggio che ha spesso citato, sottolineandone orgogliosamente il ruolo paterno.
In attesa di capire in cosa consisterà la rifondazione del MoVimento 5 Stelle, i grillini dovrebbero capire la direzione verso cui andare e prendere posizione nel netto bipolarismo che si sta formando. Perché questo non può più aspettare. Chi dovrà indossare la cravatta, invece, sì.