Perennemente, ci troviamo di fronte allo specchio a cercare di capire chi siamo, senza accorgerci di sapere poco o addirittura nulla di noi. A volte basta un accorgimento di qualcuno sul nostro essere per farci entrare in panico. La nostra identità, infatti, è astratta così come il nostro volto occultato da una maschera invisibile costruita appositamente per la società. La soluzione sta nel liberarsene cercando di scoprire la nostra interiorità.
Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico, scriveva puntualmente Erasmo da Rotterdam più di cinque secoli fa. Ancora oggi, dato che il progresso tende a investire soltanto le tendenze ma mai le menti, questo monito continua a riecheggiare sollecitandoci a riflettere sul destino della nostra società. Gli individui che vivono all’interno della civiltà occidentale galleggiano in una sorta di bolla protettiva che non permette loro, per una decisione personale, di andare incontro al cambiamento né di essere se stessi. Essi cercano sicurezza esposti ai rischi della libera scelta che tende a inoltrarli in direzione di un’identità poco definita e incerta, incompleta e modellata dagli stereotipi, dunque facile da modificare perché priva di una propria indole. Chi si trova a subire le guerre di identità e l’imposizione delle norme socialmente condivise (modi di vestire, atteggiamenti, gusti musicali), quindi, è escluso dalle scelte più attraenti ed è troppo insicuro per poter pensare di discutere le regole del gioco. Opta dunque per la sua identità come atto di nascita, un pezzo di carta che prova a dirci chi siamo.
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qualvolta qualcuno dei miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: Io mi chiamo Mattia Pascal.
Così esordisce Pirandello nella sua celeberrima opera Il fu Mattia Pascal, riflesso di un’epoca di crisi esistenziale, psicologica e morale che mette in evidenza i paradossi umani, polemizzando e ironizzando sul sistema delle convenzioni sociali entro cui l’individuo, allora come oggi, è costretto a vivere. Ciò che l’autore vuole presentare ai lettori è l’immagine di un uomo che rimane in superficie, non andando in fondo al proprio essere per paura, magari, di sprofondare all’interno di un vortice da cui la risalita è difficile. Questo è quello che sta accadendo nell’era moderna: il singolo, appartenente a qualsiasi classe sociale, tende a seguire la massa riflettendosi nello specchio degli altri, per cui l’unicità diviene un privilegio, se non addirittura un paradosso, non c’è più alcuna distinzione né una pecora nera in mezzo a un gregge di pecore bianche. E il conformismo, un tempo accusato di soffocare la nostra individualità, viene esaltato come il nostro migliore amico: l’unico, come sostiene Zygmunt Bauman, di cui ci si possa fidare. Non sappiamo molto di noi stessi né della nostra interiorità. Da qui il concetto di maschera: siamo come siamo interiormente o tendiamo a nasconderci?
Il teatro diventa il luogo della verità, l’unico spazio che permette il compimento di quello che può considerarsi il miracolo del relativismo della sua poetica. Grazie alle maschere vestite in scena ci si può, infatti, permettere il lusso di essere veri facendo cadere quelle della vita. Per Pirandello, queste sono i ruoli sociali, le convenzioni, le strutture e anche il nome, che è la prima e più pesante delle forme che l’uomo assume.
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
L’individuo della società moderna, allora, come suggerito da Uno, nessuno e centomila, nel bel mezzo della vita si pone il dubbio del proprio essere, come Vitangelo Moscarda che, svegliandosi un mattino e guardandosi allo specchio, si rende conto che in realtà non conosce niente di se stesso, un dilemma nato da un semplice accorgimento della moglie che gli dice di avere il naso storto.
Pirandello presenta una concezione dell’essenza di ogni persona molto simile a quella di Freud, però espressa in forma diversa. Quest’ultimo, infatti, parla dell’inconscio e di come è impossibile comprendere interamente l’essenza di ogni persona, di cui si possono conoscere solo piccole pulsazioni o espressioni. L’autore siciliano, invece, se da una parte riprende l’idea nietzschiana di relatività, dove la realtà è un gioco di forme illusorie in cui non è possibile conoscere la verità, dall’altra guarda al concetto di persona sviluppato da Carl Gustav Jung in cui ogni individuo indossa una maschera in determinate circostanze, al fine di rispondere alle richieste del mondo esterno, il cui uso eccessivo può sfociare nell’ombra della personalità. Il relativismo conoscitivo pirandelliano non è altro che l’ammissione di una verità non assoluta proprio perché l’unica possibile è quella che identifica l’essere con il suo apparire. Introduce, inoltre, la cosiddetta Teoria delle maschere, che spiega attraverso la sua metafora come l’uomo si trovi nascosto dietro a una maschera che ci viene imposta dalla società, dai valori e anche dalla nostra famiglia. Questa, così come quella dell’inconscio, non può essere tolta, così il soggetto non potrà conoscere la propria essenza.
Una è la personalità che l’uomo pensa di avere, centomila sono le personalità che si nascondono dietro la maschera, tante quante le persone che lo giudicano, nessuna, in realtà, è quella che l’uomo indossa. Pirandello ci insegna che essere noi stessi implicherebbe accettare il peso del confronto, affrontare conflitti e accettarne le conseguenze, mettere in discussione le proprie idee con il pericolo che vengano demolite. Da ciò deriva la spensieratezza e la semplicità che si trova nell’occultare il proprio volto, nel vivere ai margini della mediocrità senza abbracciare apertamente alcuna posizione, essendo quindi un automa che segue la massa. Chi non si mostra non ha il pericolo di essere sconfitto né giudicato, dato che appare inattaccabile su ogni fronte. Chi non si mette in gioco non può stabilire autentici legami con l’altro, ma allo stesso tempo è in grado di adagiarsi sulle piume della quiete quotidiana. Una maschera utilizzata essenzialmente per proteggersi, per non mostrare la propria unicità e il proprio essere diverso.