Prosegue la lotta di Lucha y Siesta, Casa delle Donne e centro antiviolenza nel quartiere tuscolano della Capitale. Lo stabile, snodo cruciale della tutela dei diritti delle donne in difficoltà, oltre alla violenza di genere combatte la violenza istituzionale del Comune di Roma. Il centro ha infatti sede in un immobile di proprietà dell’ATAC, economicamente valutato 2 milioni di euro ma inestimabile come risorsa sul territorio romano, tanto da far discutere su come salvarlo dallo sgombero e lavorare insieme al Comitato Lucha sull’acquisizione dello stabile.
Basta è il grido delle donne di Lucha y Siesta: basta fare guerra a chi combatte la violenza, basta incoerenza e superficialità istituzionale, basta con i giochi fatti sulla vita degli altri e delle altre. Basta alla retorica sofista delle istituzioni, alle riunioni sbrigative e inconcludenti, alle promesse vuote e mai mantenute. Basta alla desertificazione amministrativa, all’inno del divide et impera, basta alla precarietà di Lucha y Siesta con ripetuti ultimatum dalla giunta Raggi che poco sembra avere a cuore le sorti del centro. Basta, soprattutto, a voler monetizzare un diritto fondamentale e ineludibile.
Lucha non può chiudere, col suo mutuo soccorso, lo sperimentalismo e il fremito culturale che rappresenta. Il neocomitato per l’acquisto dello stabile nasce dalla necessità di sensibilizzazione e riconoscimento collettivo dell’importanza sociale del luogo, irriducibile a centro di supporto con camere dotate di semiautonomia. Fingere impotenza davanti alle strettoie procedurali significa fare un torto non solo alle donne direttamente coinvolte, ma all’intera comunità che ricostruisce dinamiche di potere e di violenza. Abbiamo intervistato un’attivista di Lucha y Siesta per comprendere a fondo la rilevanza socio-culturale del centro.
Lucha y Siesta è molto più di un centro antiviolenza e di accoglienza. Ma in che modo è una sperimentazione unica nel Comune di Roma?
«La vecchia sottostazione del tram è diventata una Casa delle Donne, un polo culturale che costruisce cultura e che ospita donne che costruiscono il proprio percorso di autonomia. È un presidio riconosciuto dentro e fuori la rete antiviolenza cittadina che soffre una tragica carenza di posti per donne in difficoltà, 23. Consapevoli che per molte non poter uscire di casa significa continuare a subire violenza o addirittura morire per mano di un compagno violento, infatti, riteniamo che 23 posti siano un numero ridicolo, una vera condanna per tante donne. In questi 11 anni, Lucha y Siesta ha accolto 142 donne con 62 minori e ne ha sostenute 1200. Seppure non tutto il lavoro sia monetizzato né monetizzabile, il valore prodotto in questi anni con il lavoro volontario e militante delle donne di Lucha y Siesta è quantificabile e ha fatto risparmiare all’amministrazione capitolina circa 6776586 euro».
Potreste definirvi un laboratorio che mira a costruire una cultura di genere? Se sì, in che modo?
«Se intendiamo la cultura di genere come una mappa dove tessiamo insieme i legami del rispetto e dell’autonomia e tracciamo le strade adatte a tutte le persone per arrivare a stringere relazioni affettive libere e consapevoli, allora sì. Noi questo lo facciamo tutti i giorni. A partire dal dialogo che instauriamo nella comunità dentro la casa fino alle attività aperte al quartiere. Chi entra a Lucha y Siesta capisce subito di essere in un luogo diverso dove prima di tutto contano le relazioni, il rispetto e la valorizzazione di tutti i desideri e di tutte le capacità, a partire proprio dall’ottica di genere e fuori dal tracciato degli stereotipi».
Dal 2008 a oggi, quali mutamenti avete avvertito nel corso della vostra esperienza come Casa delle Donne, sia in positivo sia in negativo?
«Le donne muoiono continuamente, una ogni tre giorni. Il fenomeno oggi è più sotto l’occhio attento dei media che ci riportano quotidiani casi ed episodi di violenza, ma questo non basta a fermare una vera e propria guerra contro tutte le donne che non sono più disposte a subire violenza, minacce e insulti. Dunque l’attenzione pubblica è più alta rispetto a dieci anni fa ma mancano passi importanti a partire proprio dalla comunicazione. Sui giornali ancora si parla di raptus e di follia confondendo un fenomeno sociale profondamente radicato con episodi di squilibrio psichico. Ancora parliamo di gigante buono quasi a giustificare un gesto fatto, in fondo, da una persona di buon cuore e non da un uomo possessivo e violento. Il fenomeno della violenza di genere è strutturale: o si accetta questo o mai riusciremo a costruire una valida barriera che lo respinga e che allo stesso tempo lo decostruisca pezzo per pezzo. Questo deve avvenire a scuola, in famiglia e sui luoghi di lavoro».
La contabilità dell’ATAC dovrebbe passare in secondo piano rispetto alle gravi mancanze del Comune di Roma che tuttora non rispetta le direttive della Convenzione di Istanbul. Cosa risponde?
«Nella grande e complessa macchina amministrativa non possiamo pensare che sia l’ATAC a farsi carico del contrasto alla violenza di genere per questo chiediamo che sia il Comune di Roma a intervenire in sostegno del Comitato Lucha alla città, aprendo un dialogo che porti a una soluzione condivisa. Parliamo a ogni modo di un Comune che dovrebbe avere una visione integrata della città. Se ci sono beni che sono stati abbandonati per anni e che la cittadinanza ha rimesso a nuovo, questa cittadinanza va sostenuta!»
Qual è stato il messaggio che intendevate trasmettere attraverso mailbombing e audio WhatsApp all’ATAC ironici e legittimamente provocatori?
«Che Roma rischia di perdere un bene prezioso, quasi di lusso se consideriamo che la città ha solo due Case delle Donne. Quanto facciamo è per salvaguardare il diritto di ogni donna di costruire il proprio progetto di autonomia. Farlo sostenendosi insieme ad altre rende tutte più forti».
Cosa significherebbe chiudere uno spazio del genere per il Comune di Roma? E per il Municipio semi-periferico in cui avete sede?
«Il nostro è uno dei municipi più grandi di Roma e va da San Giovanni a metro Anagnina, non è esatto definirlo periferico. Certo è che ci muoviamo su un territorio densamente popolato dove spesso è discontinua la localizzazione dei servizi e accedervi è sempre più difficile. Senza Lucha y Siesta, la città perderebbe posti di accoglienza preziosissimi. A Roma ce ne sono solo altri 35 circa dedicati alle donne che vogliono uscire dalla violenza».
In un’intervista passata avete dichiarato che la giunta Raggi è nemica delle donne. Come si può commentare la risposta paradossale delle istituzioni?
«L’amministrazione a oggi non ha risposto alla richiesta di aprire un tavolo che parli del destino di un immobile che riteniamo non possa essere ceduto all’interesse privato in forza dell’interesse pubblico superiore che ricopre. Dotare la città di più posti di accoglienza è la strada che dovrebbe perseguire il Comune, possibilmente valorizzando quanto già c’è e funziona. Sappiamo benissimo che la vendita dell’immobile di via Lucio Sestio non risanerebbe il bilancio di ATAC. Quindi, sarebbe un segnale importante per tutte le professioniste che lavorano nel contrasto alla violenza e soprattutto per tutte le donne che quotidianamente cercano una via d’uscita. Il problema non riguarda le 15 donne che ora vivono da Lucha, ma tutta la cittadinanza. Lucha continua a essere attiva sotto ogni fronte. Stiamo ricevendo tantissima solidarietà da parte di associazioni con cui abbiamo collaborato ma anche con nuove realtà che ci stanno scoprendo in questo momento. Presso la Commissione di Vigilanza e Garanzia abbiamo reclamato l’importanza dell’esperienza di Lucha y Siesta, richiamando agli incontri che già ci sono stati ma che non hanno portato a nulla se non a una perdita di tempo rispetto a una soluzione che avrebbe potuto trovarsi prima di arrivare a questo punto. Parliamo di una soluzione politica che riconosca l’interesse pubblico che Lucha y Siesta ricopre per tutte le cittadine e i cittadini. Chiediamo che ci sia trasparenza e scongiuriamo che la vicenda si risolva con la sostituzione di un’esperienza così importante con una speculazione edilizia».
Cosa possiamo fare di concreto, a oggi, per sostenere Lucha y Siesta?
«Il Comitato Lucha alla Città è nato il 7 settembre 2019 come risposta della cittadinanza al rischio di chiusura della Casa delle Donne Lucha y Siesta. In pochi giorni hanno aderito moltissime persone e associazioni: a una settimana dalla presentazione sono già mille. Ne è Presidente la filosofa Federica Giardini mentre Lea Melandri è la Presidente onoraria. Molti artisti, tra cui Lorenzo Ceccotti, Frad, Hogre, Maicol&Mirco, Leo Ortolani, Rita Petruccioli, Sio, Zerocalcare, Silvia Ziche e tanti altri, hanno aderito o sostengono il progetto, con l’adesione di più di 50 enti e realtà differenti. È possibile e importante anche contribuire con qualsiasi cifra alla raccolta fondi online lanciata da Lucha y Siesta per accedere all’asta per la vendita dell’immobile e dare insieme Lucha alla città!»
Fotografie di Lucha y Siesta dal sito ufficiale del crowdfunding Lucha alla città – crowdfunding (produzionidalbasso.com)