È la mattina dell’8 ottobre, il telefono della poetessa Louise Glück squilla. All’altro capo c’è Anders Olsson, il presidente del comitato per il Premio Nobel: le ha telefonato per dirle che ha vinto. Il Nobel per la Letteratura 2020 le è stato conferito con parole bellissime: per la sua inconfondibile voce poetica che, con austera bellezza, rende universale l’esistenza dell’individuo. È proprio sul concetto di universalità della sua poesia che bisogna porre l’accento, sulla scelta di questa parola così raramente utilizzata al fianco della produzione di un’autrice che è bene soffermarsi.
Louise Glück è la sedicesima donna ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento alla carriera, la seconda americana dopo Toni Morrison (Nobel nel 1993). Sedici premi in centodiciannove edizioni danno la misura di quanto poco il carattere dell’universalità sia stato attribuito, negli anni, all’opera delle scrittrici e delle poetesse. Al centro della ricerca poetica universale di Louise Glück c’è l’illusione del sé, la questione del genere e dell’identità, l’alternarsi delle stagioni che segna il ciclo di vita della natura e dell’anima, il rapporto fra quest’ultima e la dimensione del corpo, la riscrittura e il rimaneggiamento in chiave postmoderna delle storie più antiche mai raccontate dall’umanità: i miti greci, romani, biblici.
I versi scelti dal comitato per il Nobel vengono da una poesia della sua raccolta L’Iris Selvatico (vincitore del Premio Pulitzer nel 1993), intitolata Snow drops (gocce di neve). La poesia è stata rilanciata su Twitter dal formidabile scrittore Matt Haig – che spesso si è soffermato nella sua opera sull’intimo rapporto tra le storie e la salute mentale – esaltandone immediatamente la potenza salvifica: «È la miglior poesia sulla guarigione. L’ultimo verso mi lascia senza fiato», ha scritto.
Do you know what I was, how I lived? You know
What despair is; then
Winter should have meaning for you.
I did not expect to survive,
Earth suppressing me. I didn’t expect
To waken again, to feel
In damp earth my body
Able to respond again, remembering
After so long how to open again
In the cold light
Of earliest spring –
Afraid, yes, but among you again
Crying yes risk joy
In the raw wind of the new world.
L’inverno e l’autunno hanno un peso specifico nella poetica di Glück: non sono scenari di morte, sono attimi tesi nel palpito di una primavera che riposa sotto una coltre di foglie secche e neve. Il ritorno della primavera non rappresenta, però, sempre speranza: è anche condanna a un eterno ripetersi, destino ineludibile. Una storia già scritta dalla natura che si riversa nei nostri corpi, che li manipola e li cambia, che verte l’androgina infanzia a una maturità femminile o virile alla velocità del cambio delle stagioni e lascia inevitabilmente indietro l’anima, scollata e incapace di riconoscersi nel corpo che abita.
Nella sua bellissima raccolta di poesie Averno (pubblicata con lungimiranza l’anno scorso in Italia dalla piccola casa editrice Dante&Descartes, in una traduzione del pluripremiato Massimo Bacigalupo), Glück intreccia il mito di Persefone con il racconto autobiografico, scandagliando i ruoli di genere di madre, figlia e sposa. Il lago d’Averno, considerato in antichità il punto d’accesso agli Inferi, il regno di Ade, scivola dentro e fuori dai versi di Glück, luogo mitico foriero di morte e, al tempo stesso, meraviglioso specchio per le stelle luminose del cielo. L’acqua del lago come specchio del cielo è anche, in qualche modo, rovesciamento dei parametri del mondo, che ci spinge a domandarci se, in fondo, quella che viviamo qui fuori non sia una dolorosa illusione. Questo dubbio, questa curiosità ci spinge a specchiarci a nostra volta nel lago per scorgere, magari, sul suo fondo il volto esangue di Persefone, prigioniera dell’Ade fino a quando Demetra non la reclamerà in primavera e tutto fiorirà, di nuovo. Come posso sopportare la terra, si domanda Glück in uno dei suoi versi.
Ecco, nella domanda solenne, racchiuso il destino di un’umanità sopraffatta, frammentata, l’universale nell’individuale. Come possiamo sopportare la terra? Forse l’arpa della poesia può salvarci. La poetessa si riferisce a quest’arte come a qualcosa di capace, da sola, di aprire e rimarginare ferite. Apre ferite perché pone domande coraggiose, le rimargina perché sono quelle stesse domande che, pur privandoci di ogni certezza, ci spingono a perseverare nella ricerca.