Secondo lo scrittore Jorge Luis Borges, l’idea dello Zahir viene dalla tradizione islamica, e si ritiene sia nata intorno al XVIII secolo. Zahir, in arabo, vuol dire visibile, presente, incapace di passare inosservato. Qualcosa o qualcuno che, una volta che si è stabilito il contatto, finisce per occupare a poco a poco il nostro pensiero, fino al punto che non riusciamo più a concentrarci su nient’altro. E ciò può essere considerato santità o follia.
Con questa breve introduzione si apre il romanzo Lo Zahir dello scrittore brasiliano Paulo Coelho, conosciuto e tradotto con grande successo in tutto il mondo, al centro di tanti elogi quante sono le critiche al suo modo di fare scrittura. Il romanzo sopramenzionato, del resto, ne è l’emblema.
Lo Zahir è un oggetto o una persona che, se dapprima può apparire insignificante, si insinua nella mente e la invade occupandone ogni angolo. Diviene un’ossessione di cui ci si può liberare soltanto andandole incontro, cercandola e facendola propria per sempre.
A scoprire questa verità è il marito di Esther, una corrispondente di guerra che, un giorno, apparentemente senza motivo alcuno, sparisce. Da quel momento, lui, scrittore di cui non ci è dato conoscere il nome che acquista una fama crescente, seppure si rifaccia in fretta una vita e nonostante abbia spesso trascurato gli impegni verso quella che avrebbe dovuto essere la sua compagna per sempre, non riesce a dimenticarla.
Ripresi le sessioni di firma dei miei libri, tornai ad accettare gli inviti per conferenze, interventi, cene di beneficenza, programmi televisivi, progetti con artisti all’esordio. Facevo di tutto, tranne quello che avrei dovuto realmente fare: scrivere un libro.
Ma non mi importava. In fondo all’anima, pensavo che la mia carriera di scrittore fosse finita, giacché colei che me l’aveva fatta iniziare non era più con me.
È il suo chiodo fisso, un’ossessione che lo spinge a viaggiare da un continente all’altro per ritrovarla e che mette il lettore di fronte a una visione dell’amore decisamente poco usuale. La loro relazione, infatti, è sempre stata tutt’altro che fondata sulla fedeltà, un susseguirsi di avventure e nuove storie che, però, ha reso i due consorti consapevoli dell’indissolubilità del loro legame. Leggendo il libro, viene continuamente da chiedersi se questo possa davvero essere considerato amore o quale sentimento faccia sì che il pensiero dell’uno assedi la mente dell’altro, pur essendo in grado di condurre la propria vita indipendentemente dalla data persona e con la capacità di aprirsi a possibili, nuovi incontri.
Perdere Esther significa, per lo scrittore, acquisire una maggiore consapevolezza di sé, mentre cercarla vuol dire tentare di ritrovare il senso della sua esistenza in un lungo viaggio fisico e spirituale per mettere in pace la propria anima. In un itinerario intercontinentale, dall’Europa all’Asia, il protagonista viene a conoscenza di nuove realtà che sconvolgono i principi e le credenze su cui aveva basato un’intera vita e lo stesso lettore avverte spesso un senso di disorientamento di fronte a punti di vista così lontani.
Il sovvertimento di ogni sovrastruttura da parte di Coelho può certe volte risultare eccessivo e trasmettere un senso di non familiarità con cui chi legge fa fatica a fare i conti, al punto che, a tratti, l’autore sembra peccare di arroganza presentandosi come possedente di una verità superiore. Tuttavia, l’impianto intero del romanzo è proprio il continuo tentativo di rompere gli schemi mentali cui siamo abituati, per spingerci a rivalutare concetti come l’amore, la conoscenza e il coraggio, al di là di come ci è stato insegnato a percepirli. Spingersi sempre più distante, allontanarsi dalla propria storia personale, da ciò che ci hanno costretto a essere.