Il centro storico di Napoli, l’arte del pizzaiolo e la lingua napoletana – seconda nel nostro Paese soltanto a quella nazionale, per i partenopei motivo di soddisfazione per l’ufficialità, ma insita in quell’identità da sempre ritenuta scontata – sono stati riconosciuti dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità. E la canzone classica napoletana? Domanda superflua di un tema che non necessita di alcuna certificazione per la propria storia, per le origini, per un percorso che viene da molto lontano e che valenti scrittori e storici hanno puntualmente studiato e approfondito con dovizia di particolari.
C’è persino una data approssimativa, forse un tantino discutibile cui fanno riferimento in molti, ma che comunque si vuole come l’inizio della nascita della prima canzone napoletana di successo: settembre 1835, con quella melodia, ancora oggi tanto apprezzata non solo dai nostri conterranei ma dal mondo intero, che è Te voglio bene assaje, musica di Gaetano Donizetti, tra i più celebri operisti dell’Ottocento, e versi di Raffaele Sacco. Non che fino a quella data Napoli non avesse cantato per i vicoli, nelle strade o nei luoghi di ritrovo, certo, ma i suoi erano sempre stati generalmente canti popolari, villanelle, alcune portate in città da lavandaie o serve, che poi erano passati di bocca in bocca e per lo più si ascoltavano nelle taverne, specialmente quelle un po’ maliziose e con doppi sensi. Fenesta ca lucive e Cicerenella le più cantate dal popolo. Te voglio bene assaje, invece, si racconta la cantassero tutti, forse per il suo motivo semplice e orecchiabile, per questo è da considerare apripista di un genere letterario e musicale che ebbe il massimo fulgore nel tardo Ottocento e poi nel Novecento.
Ma che fine ha fatto e qual è lo stato di salute della canzone classica napoletana? Una domanda che spesso mi sono posto quando mi sono ritrovato tra le mani quella bella raccolta realizzata dal grande Roberto Murolo tra il 1963 e il 1967, che custodisco gelosamente, (Napoletana. L’Antologia cronologica della canzone partenopea) o ascoltando motivi della tradizione interpretati dai più svariati interpreti. A chi chiedere, quindi, se non a Carlo Missaglia che quello stesso Murolo considerò come suo continuatore, custode della tradizione classica della canzone napoletana?
Conosco Carlo da una vita, sin dai tempi in cui da giovanissimo si dedicava alle sue ricerche man mano che veniva in possesso di preziosi manoscritti o notizie che andava spulciando tra vecchi libri in biblioteche, conservatori e librerie. Ricordo che un giorno, uno dei tanti della mia frequentazione dell’abitazione del letterato e grande studioso della storia partenopea, Antonio Altamura (di cui di recente il Comune di Napoli in occasione del centenario della nascita ha onorato la memoria in varie manifestazioni), riferendosi a Missaglia disse: «‘O guagliòne è curioso di tutto ciò che riguarda i testi e la musica della canzone classica». Quando iniziarono a prolificare le radio private e nacquero le prime televisioni libere, infatti, Carlo condusse una trasmissione di successo, Caffè di notte su Radio Antenna Capri e, poi, su Canale 21 Madre Napoli, mentre per la RAI intervenne in una trasmissione condotta da Antonio Lubrano, Allora Napoli.
Tournée negli USA, Giappone, Brasile, Venezuela, in quasi tutte le capitali e città del Vecchio Continente, e un concerto a Strasburgo al Parlamento Europeo, Missaglia ha pubblicato una bella antologia della canzone napoletana in dieci volumi, con brani a partire dal 1537 ai giorni nostri e pezzi inediti di Cimarosa, Pergolesi, Vinci, Russo, Di Giacomo e tanti altri, in cui le basi delle incisioni sono le numerose partiture musicali originali delle quali è venuto in possesso visitando e ricercando in biblioteche, conservatori e licei musicali dei vari Stati europei in cui la maggior parte di queste è ancora custodita.
Ho cercato dopo tanti anni quel guagliòne, raffinato interprete che oggi, oltre alle serate, insegna Storia della Canzone Napoletana, e l’ho incontrato in un caffè del Vomero, trovandolo sempre schietto e senza peli sulla lingua, tipico del suo carattere.
Un bilancio della canzone classica napoletana: quale lo stato di salute? I vari momenti, l’evoluzione con Carosone, Daniele…
«Non c’entrano nulla con la tradizione: quelle sono canzoni nate a Napoli e scritte da napoletani, certo, ma con il napoletano non hanno niente a che vedere, perché la canzone partenopea ha suoi precisi canoni. Sono pezzi bellissimi, per carità, ma non si legano alla tradizione. La canzone classica generalmente è scritta con la scala napoletana, una scala che si studia anche al conservatorio e che riconosci subito. Pure se non senti le parole, soltanto dalla musica ne capisci l’appartenenza, ho sempre sostenuto questo. Pino Daniele mi piace, nell’antologia da me curata, infatti, c’è Terra mia che ha i canoni classici, quindi il mio non è atteggiamento contro qualcuno. Tuttavia, se giri il mondo, se senti un motivo, distingui subito se un pezzo è francese, così come basta un ritmo di bossa nova e capisci che si tratta del Brasile. Il jazz invece è l’America. Attraverso la musica, identifichi prontamente il Paese, così, quando senti quella napoletana sai che è Napoli, che è l’Italia, perché la canzone partenopea, sin dal Cinquecento è stata sempre quella nazionale, tanto è vero che le villanelle, anche alla napoletana, e la maggior parte dei fascicoli sono quasi tutte in italiano, poche in vernacolo, e io ne ho tradotte molte.»
Nel corso di una recente intervista fatta a Benedetto Casillo – che ritengo l’ultimo custode del teatro classico napoletano –, relativamente al presente e al futuro di questo genere mi ha risposto che non c’è nulla in cui sperare. Siamo anche nel tuo settore dinanzi a un fallimento?
«Stamattina facevo una riflessione: purtroppo, alle nuove generazioni non abbiamo trasmesso la cultura. Esiste un’ignoranza spaventosa, non si ha conoscenza di nulla, la crisi della nostra società viene tutta da un vuoto culturale. Ai nostri tempi, ascoltando una volta una canzone alla radio, si riconosceva subito l’interprete. Oggi, invece, la musica è il contrario. Ciascuno di noi che cantava aveva la propria personalità, ma adesso i cantanti si somigliano, partecipano alla trasmissione della De Filippi, un anno di boom e poi scompaiono.»
Un’analisi realistica ma triste, una luce in fondo al tunnel la vedi?
«Se non si cambia l’impostazione, cosa che invece stiamo facendo. Studiare per cominciare a capire. Gli allievi dell’università in cui insegno Storia della Canzone Napoletana – prima e unica cattedra al mondo –, se riesco a essere credibile, se sono attento a raccontare non prendendoli per i fondelli, mi seguono, si affezionano alla materia. La canzone italiana non è italiana, è americana, è altro. La canzone napoletana, invece, è diversa, è talmente bella che non ha bisogno di un’orchestra, basta una chitarra.»
Grazie per l’intervista , ma non me lo avevi detto. Una sola cosa Te voglio bene assale non è di Donizetti ed è stata composta nel periodo di Carnevale del 1840 Raccolta e resa come attualmente la si conosce dall’ottico Raffaele Sacco la musica ….e qui il discorso si fa più complicato ma non impossibile. Se po ffà ma ce vo nu poco e pacienza. Grazie anche per il ricordo del prof Antonio Altamura.
Caro Maestro, su Donizetti non ebbe dubbio alcuno Salvare Di Giacomo è più tardi il grande Mario Stefanile. Le tue ben note e articolate ricerche sapranno dirci meglio della verità che non so se sarà mai la Verità.
Grazie a te per la tua generosa disponibilità