È di pochi giorni fa la notizia che si è giunti, finalmente e dopo un immobilismo durato anni, all’iscrizione nel registro degli indagati di 27 agenti e un medico, in servizio presso il carcere di Ivrea, per le violenze avvenute ai danni di vari detenuti tra il 2015 e il 2016. Nonostante i fatti che stanno emergendo siano configurabili pienamente come tortura, a quel tempo tale reato non era ancora stato introdotto e così le accuse sono di lesioni e falsi aggravati.
Arrivare a queste indagini non è stato per nulla semplice, se si considera non solo quanto tempo è trascorso, ma soprattutto gli innumerevoli esposti presentati dall’Associazione Antigone, oltre che dal Garante comunale delle persone private della libertà personale di Ivrea, rimasti inascoltati, tanto che, dopo svariate richieste di archiviazione, è stato necessario chiedere l’avocazione delle indagini al Procuratore generale presso la Procura di Torino.
Nell’atto di accusa – come riportato da alcuni quotidiani e dalla stessa Associazione Antigone – si legge che Hamed, una delle persone detenute coinvolte, sarebbe stato picchiato con calci e pugni da ben sette agenti, due dei quali gli trattenevano braccia e gambe. Ancor più gravemente, se possibile, il medico, poco distante dal luogo della violenza, assisteva inerme alla scena e anzi continuava a sorseggiare il proprio caffè, come si trattasse di normale quotidianità. Fatti gravissimi che erano stati segnalati anche dal Comitato per la prevenzione della tortura, in un rapporto successivo a una visita svolta nell’aprile 2016, e che sono emblema di un’istituzione in cui la violenza e i soprusi sembrano essere normalizzati.
Qualche tempo fa, tirando le somme dell’anno drammatico trascorso in carcere, facevamo riferimento agli innumerevoli episodi di violenza emersi negli ultimi mesi e per la maggior parte dei quali, per fortuna, sono già in corso i processi. Questi dati sono preoccupanti perché sono espressione di una violenza radicata nelle istituzioni totali, insita nel loro funzionamento e nel principale fine che queste mantengono, ossia dell’annichilimento e dell’alienazione di chi vi entra. Oltre alla considerazione per cui l’essenza di discarica sociale e luogo violento del carcere non è cosa nuova e l’emergere di tali fenomeni è dovuto forse a un’attenzione maggiore al mondo penitenziario e ai diritti umani (seppur ancora insufficiente) non si può non accorgersi che la nostra società fa davvero difficoltà a rendersi conto di tali meccanismi istituzionali.
Innanzitutto, all’esterno si percepisce un universo penitenziario ben diverso da quello reale e a ciò contribuisce senza dubbio la rappresentazione che ne danno stampa e politici: ben al di sopra di altri Paesi, le nostre carceri portano avanti un modello afflittivo che non somiglia neppure lontanamente a quel fine rieducativo stabilito dalla Costituzione. È oramai sdoganata l’idea per cui in carcere si va per pagare, tanto che lo si annuncia a gran voce, e senza timore, auspicando ogni tanto anche di gettare le chiavi. In maniera abbastanza contraddittoria, però, ogni tanto si nutre la convinzione per cui tutto sommato in carcere si sta bene, quasi in hotel si sente dire, e che invece più il regime è duro, più si trae giovamento dalla reclusione.
Di fronte all’emergere di tali episodi, bisogna però ammettere che viviamo in uno Stato in cui la società e la politica hanno un problema a denunciare la violenza istituzionale, come a non voler indebolire i terribili meccanismi di potere che sembrano reggere le istituzioni dell’ordine e, dunque, della repressione. Del resto, è su questi due ultimi concetti che è stata costruita un’intera campagna elettorale, su cui ora continua a fondarsi il consenso, se consideriamo solo alcuni degli ultimi provvedimenti adottati, tra cui il decreto anti-rave e la legge contro le ong, dal sapore terribilmente antidemocratico e che portano con sé un fortissimo valore simbolico per chi crede nella forza e nell’autorità di questi rappresentanti politici.
Lungi da noi attribuire simili responsabilità alla sola ultima compagine governativa: quella che possiamo definire una vera e propria stortura ha radici lontane e difficili da estirpare. Guardando, ad esempio, a fatti accaduti appena due anni fa, in occasione della mattanza verificatasi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ai danni delle persone detenute che altro non chiedevano se non tutela della propria salute, e possibilità di non vedersi abbandonati in luoghi insalubri e senza i propri cari, prima i fatti furono negati, poi sminuiti, addirittura descritti come necessari per ripristinare l’ordine, proponendo una promozione per quei carnefici d’un tratto diventati eroi.
Non è la prima volta che riportiamo l’attenzione su questi fatti, ma giova sempre ricordarli se i meccanismi che si ripetono sono uguali e infiniti: passerelle politiche in difesa degli agenti, per partito preso e senza avere alcuna consapevolezza dei fatti, semplicemente perché le testimonianze di un cittadino non detenuto varranno sempre di più delle parole di chi – fosse anche una sola volta – ha sbagliato.
È accaduto a Santa Maria Capua Vetere, ma era già successo a San Gimignano, a Ivrea e in tutte le situazioni simili e, se volgiamo lo sguardo al di fuori delle mura carcerarie, accade esattamente lo stesso. E se il nostro sguardo finisce all’ingresso di un liceo fiorentino, vedremo la stessa scena: violenza usata per reprimere, impaurire, segregare e se anche non si tratta di violenza istituzionale, perpetrata da chi lo Stato lo rappresenta, è da quest’ultimo legittimata e avallata, negandone la natura e il fine.
Se un Ministro di fronte a una tale brutalità nega che in Italia ci sia una deriva violenta e autoritaria e, anzi, in risposta a parole accorate di preoccupazione ma anche di resistenza alle barbarie della stessa preside della scuola, parla di un’inopportuna politicizzazione, allora viviamo in uno Stato che non sa guardare la realtà. E se le nostre istituzioni non sono in grado di vedere ciò che accade, e di riconoscere i propri limiti, allora non sapranno mai superarli e soprattutto non sapranno mai ascoltare le necessità di chi quegli stessi limiti li subisce.