Gli stereotipi sui giovani che non lavorano li conosciamo tutti. Non hanno voglia di lavorare, preferiscono farsi mantenere da mamma e papà – se provenienti da famiglie agiate – o dai sussidi di disoccupazione e altre misure agevola-fannulloni come il reddito di cittadinanza. Magari ci provano pure a cercare lavoro ma poi, quando si rendono conto che per imparare un mestiere ci vuole il sacrificio, lasciano stare, perché evidentemente la gavetta non fa per loro, mai contenti delle opportunità che hanno. È una narrazione ricorrente, a cui siamo quasi abituati e a cui tante, troppe persone credono.
È proprio per abbattere questi stereotipi che ActionAid ha deciso di condurre uno studio, insieme a CGIL, sui NEET. Not [engaged] in Education, Employment or Training, ovvero persone che non stanno studiando, non si stanno formando né hanno un lavoro, è il modo per definire i giovani disoccupati o, per ciò che concerne l’Italia, i giovani in generale, data la prevalenza di questa categoria nel nostro Paese. L’Italia, dopotutto, ama collezionare primati di cui non andare affatto fieri ed è infatti il Paese europeo con maggior numero di individui tra i 15 e i 34 anni che non hanno un’occupazione. In totale sono più di 3 milioni.
Per dare un contesto, è bene sapere che gli iscritti all’università son circa 1 milione e 700mila, la metà, dunque, dei disoccupati. Considerando che la popolazione italiana tra i 15 e i 34 anni è formata da circa 12 milioni di persone, è facile dedurre che un quarto dei giovani italiani non trova lavoro. O non lo vuole, secondo certe narrazioni, per fortuna smontate dal report appena uscito.
Con lo studio NEET tra disuguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche, infatti, è facile dedurre che a non lavorare sono in prevalenza le categorie di persone in qualche modo svantaggiate. Il report fa riferimento all’anno 2020 e spiega che a essere disoccupate sono in prevalenza le donne (1.7 milioni) e i giovani del Sud, il doppio rispetto al Nord. La maggior parte dei ragazzi tra i 20 e i 24 anni, solitamente con una formazione superiore e alla ricerca del loro primo impiego, si concentra principalmente nel Mezzogiorno. Sono il gruppo più numeroso di NEET italiani, che evidenzia la crisi del mercato del lavoro nel Sud Italia e chiarisce quanto l’impegno nella ricerca di un lavoro non basti affatto, se non c’è un’offerta adeguata.
La percentuale di donne disoccupate, invece, sale nelle fasce d’età più alte, quelle tra i 25 e i 29 anni (30.7%) e i 30 e i 34 anni (30.4%), a dimostrazione del fatto che essere in età da gravidanza, pur non avendo figli, non aiuta. Le dinamiche familiari dei giovani senza occupazione, in effetti, sembrano confermare queste tendenze. Le donne con figli che non lavorano rappresentano il 23% dei NEET, mentre i padri disoccupati sono solo il 3%.
A tali sconfortanti dati, se ne aggiunge un altro che chiarisce le difficoltà che si incontrano per uscire da questa situazione. La maggior parte delle donne NEET con figli, quasi l’87%, è formata da persone inattive, così come, in generale, sono considerati i NEET. L’inattività è quella condizione di rassegnazione che si presenta dopo aver cercato lavoro a lungo, ma senza averlo trovato. Coloro che non lavorano, dunque, hanno smesso di essere alla ricerca di un impiego, non per pigrizia ma per rassegnazione: perché, con il tempo, è risultata evidente l’impossibilità di uscire da questa condizione.
Infatti, la metà dei NEET ha avuto esperienze lavorative precedenti, la maggior parte delle quali precarie, insufficienti per la sopravvivenza e sottopagate. Non sorprende, dunque, il dato Eurostat sull’età media in cui i giovani riescono a uscire di casa dei genitori: 29.9 anni. Al sestultimo posto in Europa, migliori solo di Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Portogallo e Croazia, infatti, in Italia i giovani non riescono a raggiungere l’indipendenza economica né a lasciare casa dei genitori, e di conseguenza non riescono a mettere su famiglia e contribuire a quel tema della natalità tanto caro al nostro governo.
Il report li definisce gli scoraggiati: principalmente giovani dai 30 ai 34 anni che hanno smarrito la speranza di trovarlo, un lavoro. Hanno esperienza e ora sono inattivi, ovvero non stanno più cercando attivamente un impiego. Sono formati da giovani single o da coppie senza figli, incapaci – non per loro colpa – di rendersi economicamente indipendenti o andare a vivere da soli.
Il rapporto, dunque, non parla solo di numeri. Dettagliato nell’analisi di tutti i fattori e le caratteristiche dei giovani italiani che non lavorano, ActionAid concentra il focus del proprio studio sulle disuguaglianze strutturali del nostro Paese. Evidenzia quella che definisce una sofferenza propria di un’intera generazione, trasversale, complessa e profonda. Evidenzia anche come la provenienza e la formazione siano estremamente diverse, pur riuscendo ad accomunare 3 milioni di persone nella stessa tragica condizione.
La soluzione individuata dal report parla di elevare il livello di istruzione e di accompagnamento al lavoro, ma è facile chiedersi come solo questo possa bastare. È tutto il sistema a essere completamente sbagliato. È il mercato del lavoro a essere immobile ed è prima di tutto dello Stato la responsabilità di creare nuovo impiego. Ed è il modo in cui il mercato funziona, con la necessità di avere prezzi competitivi raggiunti sul risparmio degli stipendi, sempre da fame, che causa lo sfruttamento. Se tanti giovani non lavorano, se una generazione intera, seppure con le sue differenze, si trova tutta nella stessa condizione, se il senso di smarrimento caratterizza le vite di 3 milioni di persone, è il sistema che va cambiato. E va fatto subito, prima che il futuro dei giovani svanisca completamente.