Le parole hanno un potere e, per citare il nostro amichevole Spiderman di quartiere, da un grande potere derivano grandi responsabilità. È questo il punto focale di Lingua e essere, libro scritto dalla giornalista e attivista tedesca Kübra Gümüşay e pubblicato nel 2020 da Fandango. In particolar modo, come la lingua influenzi costantemente il nostro pensiero e la nostra percezione del mondo e degli altri.
Classe 1988, l’autrice, di origini turche, ha studiato scienze politiche ad Amburgo e in seguito all’Università di Londra, dove attualmente vive. Nel 2008 ha aperto un blog dal nome Foreign Dictionary, su cui ha scritto di politica, femminismo, Islam e società allo scopo di dar voce a varie minoranze; nel 2010, invece, ha co-fondato Zahnräder, piattaforma per consentire ai musulmani di tutto il mondo di conoscersi e supportarsi a vicenda. È anche co-inventrice dell’hashtag #SchauHin contro gli episodi di razzismo nella vita di ogni giorno. Nel 2018, Forbes l’ha inserita nella sua classifica dei trenta under 30 in Europa nella categoria Media & Marketing.
La Gümüşay evidenzia norme e disuguaglianze delle lingue, che possono modificare non solo la nostra percezione del mondo ma anche quella dello spazio e del tempo. Come i Pirahã, i quali non usano numeri superiori a due, o i Thaayorre, i quali non usano i concetti di destra e sinistra. Lei stessa governa oramai turco, arabo, tedesco e inglese e dichiara di possedere ogni volta quattro diverse personalità, quattro diverse anime. Perché la lingua ci apre il mondo e lo circoscrive. Studiarne tante aiuta a raggiungere maggiore consapevolezza anche e soprattutto dei limiti della nostra.
Uno degli esempi più eclatanti – e decisamente attuale – è l’utilizzo della forma maschile neutra. Diversi studi su gruppi misti di soggetti hanno dimostrato come una lingua inclusiva condizioni la mente umana e se novantanove poeti e una poetessa fanno cento poeti ma novantanove poetesse e un poeta fanno comunque cento poeti (Luise F. Pusch), inevitabilmente le donne saranno meno considerate sul piano del pensiero umano.
Il testo porta alle estreme conseguenze tali limitazioni, analizzando come la lingua dovrebbe essere espressione di libertà e invece rischia spesso di diventare un’arma pericolosa, che genera barriere e discriminazioni. Ipotizza un museo (la lingua) nel quale esiste un dualismo tra innominati, chi rientra cioè nello “standard”, e nominati, coloro che sono definiti “diversi dallo standard”. Questi ultimi vengono appunto nominati, classificati non più come individui ma come collettivo, catalogati in modo da semplificarne la complessità. E la cosa peggiore è che finiscono per crederci gli stessi nominati. Si arriva così a il musulmano, il gay, la lesbica, la trans, l’uomo di colore, il disabile, la donna, lo straniero.
Non solo. Vi è una profonda riflessione su quanto sia complicato problematizzare qualcosa, un concetto, che non trova una corretta espressione nel parlato. Basti pensare che la molestia sessuale non è esistita linguisticamente fino agli anni Sessanta. Accadeva ma senza esistere. Condividere le esperienze comuni – grazie, oggi soprattutto, a internet –, parlarne, utilizzare termini appropriati, consente di rendere un determinato concetto visibile, non solo agli occhi del dominato ma anche a quelli del dominante e della società contemporanea. E il rischio di un ribaltamento dei ruoli nominante/nominato spaventa enormemente. Così è successo con il fenomeno del catcalling, per dirne una, e la risposta indignata di buona parte della comunità è la prova schiacciante a conferma della tesi.
Attraverso una scrittura critica e genuina ma che colpisce alla coscienza, l’autrice fonde testo politico a esperienze autobiografiche e non, dall’infanzia all’età adulta, ponendo l’accento su tutte le volte che ha dovuto lottare per fuoriuscire dallo stereotipo di donna musulmana all’interno della società occidentale. Il suo scopo è perciò quello di sensibilizzare all’immensa responsabilità che si ha quando si parla, quando si comunica. All’importanza di denominare un abuso al fine di renderlo comprensibile. Bisogna comprendere che le parole non sono solo parole, contano, hanno un peso. Possono essere un prezioso strumento di libertà oppure una prigione. Avere buone intenzioni non giustifica determinati modi di esprimersi, soprattutto se a farne ricorso è chi non si è mai trovato nella posizione di chi invece li ha subiti per anni, secoli.
In un’epoca sempre più accorta all’inclusività eppure ancora così lontana dal raggiungerla, Lingua e essere di Kübra Gümüsay vuole soffermarsi sull’utilizzo molto spesso inconsapevole che si fa della lingua, legittimando toni e discorsi violenti, xenofobi, discriminatori nei confronti di numerose minoranze. Discorsi che troppo a lungo abbiamo sottovalutato poiché convinti che l’abitudine sia una valida giustificazione.
Ci piacerebbe concludere con un pensiero della stessa Gümüşay, riconducibile a una parola turca a lei molto cara, aciziyet: La lingua è la materia del nostro pensare e del nostro vivere che ci forma e ci plasma, senza che abbiamo consapevolezza della sua complessità. Quando raggiungo questa consapevolezza, quando riconosco i limiti della mia stessa percezione, in me scatta l’umiltà. Umiltà di fronte al mondo che io osservo solo dal mio limitato punto di vista. Ringrazio di essere consapevole dell’esistenza di questi limiti.
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