È triste riflettere su come gli ultimi due anni abbiano avuto nell’epidemia da Covid-19 un drammatico comune denominatore. In quest’ottica, tante spinose problematiche, nazionali e internazionali, sembra siano state ridotte dai governi al rango di “questioni”, congelate in attesa di tempi migliori a livello sanitario ed economico. In un prolungarsi di incertezza e disorientamento, il prossimo 20 novembre, sarà celebrata la Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Diritti che la grave emergenza ha, a lungo, ulteriormente leso.
Una prima attestazione di tali diritti risale al 1924, quando la quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni ratificò la Dichiarazione dei diritti del bambino. La ricorrenza del 20 novembre coincide, invece, con il giorno in cui, nel 1959, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la Dichiarazione dei diritti del fanciullo e poi, a distanza di trent’anni, la Convenzione sui diritti del fanciullo. Nel corso del tempo, dunque, questi strumenti hanno inteso salvaguardare i bambini e gli adolescenti, ma i loro principi ispiratori restano ampiamente disattesi.
La mortalità neonatale rimane molto alta in due regioni del mondo, l’Asia Meridionale (39%) e l’Africa Subsahariana (38%), ma nella sola India si concentra addirittura il 24% dei casi. Vi sono aree del globo terrestre in cui, prima dei cinque anni, si può morire anche per una semplice diarrea. Sono molteplici i fattori che condizionano il corretto sviluppo fisico e mentale di un bambino e tra questi, senza dubbio, un ambiente sano associato a stimoli positivi. Si stima, tuttavia, che trecento milioni di infanti vivano in zone dall’aria tossica e che, in sessantaquattro Paesi del mondo, un quarto dei bambini tra i due e i quattro anni non possa giocare, cantare o leggere: in sostanza che non abbia diritto all’infanzia.
Da non sottovalutare, inoltre, come la guerra sia nemica giurata di bambini e adolescenti: se si pensa che i conflitti di lunga data, oggi presenti in diverse aree della Terra, mirino non tanto a conquistare un territorio, quanto ad annientare un nemico, è facile dedurre che i più piccoli diventano obiettivi bellici da eliminare perché saranno nemici sicuri in futuro. È risaputo, poi, che le guerre si accompagnano a un’enorme povertà di mezzi e ciò impedisce ai bambini di vivere in modo sereno. Si calcola che nel mondo oltre trecento milioni di minori siano in condizioni di estrema indigenza e privati di assistenza e cure mediche minime.
Come se non bastasse, l’immigrazione sempre crescente alla quale ricorrono migliaia di disperati, provenienti perlopiù dai Paesi africani per sfuggire a guerre e carestie e che spesso sono vittime di naufragi nelle acque del Mar Mediterraneo, è causa di condizioni di vita disumane per tutti i minori non accompagnati. Cercano di entrare in Francia, Svizzera o Austria attraverso le nostre frontiere, ma nei centri sovraffollati e non idonei sono tantissimi gli infanti soli che finiscono nelle mani dei trafficanti.
In questa tragica realtà è da aggiungere il fenomeno dei bambini soldato che, in alcuni Paesi africani, sudamericani e asiatici, sono impiegati in operazioni militari o illegali. Oggetto di continuo sfruttamento, in taluni casi, a essi vengono somministrati stupefacenti per fare in modo che possano meglio interagire durante gli scontri, mentre le bambine sono spesso usate per scopi sessuali, ma anche per cucinare o piazzare esplosivi.
Quella delle spose bambine, infine, è la consuetudine vigente in luoghi dove ragazze minorenni, non ancora adolescenti, per motivi di carattere culturale o economico, sono costrette a sposare uomini che, frequentemente, hanno molti più anni di loro. A volte, pagano con la vita la ribellione per la brutale imposizione familiare: un rifiuto dettato dalla loro legittima aspirazione alla libertà personale. Al riguardo, ha profondamente scosso l’opinione pubblica il recente caso della ragazza pakistana uccisa da un suo congiunto.
Oltre l’arida elencazione di numeri spaventosi, resta l’amara consapevolezza che i bambini rappresentano esseri umani oggetto di autorevoli norme introdotte a tutela dei diritti, pur ritrovandosi costantemente e in modo arbitrario sottoposti ad abusi e violenze di ogni genere. Anche in Italia, nazione dove esistono sane condizioni di vita per la maggior parte di bambini e adolescenti, di quando in quando, vengono alla luce episodi terribili che dimostrano quanto sia ancora lungo il percorso per giungere all’autentica espressione dei loro diritti.
Qualche tempo fa, l’orrore in casa nostra ebbe, fra i tanti, il nome di Antonietta, quattro anni e una gran fame la sera che il padre, di ritorno dal Nord dove lavorava, la portò in pizzeria con la moglie per festeggiare l’atteso ricongiungimento familiare. Purtroppo, un destino tragico e al tempo stesso beffardo era in agguato. Nel corso della notte, infatti, Antonietta rimase soffocata da un boccone tanto più amaro che non poté ingoiare, consentendo ai medici, esterrefatti, di scoprire e denunciare l’ennesimo caso di abusi sessuali su un minore.
Antonietta viveva a Crispano, un paese alle porte di Napoli: arido satellite, uno dei tanti che gravitano attorno alla città e dei quali scopriamo l’esistenza solo quando ne compare il nome fra le pagine di cronaca nera quotidiana. La madre, operaia, in sua assenza affidava la piccola ad alcuni parenti vicini di casa e, proprio da uno di questi, un prozio analfabeta e senza fissa occupazione, la bambina fu violentata per quattro, o forse più, lunghi mesi prima di quell’ultima serata gioiosa trascorsa in compagnia dei genitori. Antonietta ha pagato per la sua fame di affetto e forse è stata uccisa dal vomito di quel dolore che non riusciva a esprimere e che, probabilmente, non avrebbe mai detto se avesse continuato a vivere un futuro di donna non donna a Crispano.
Fin qui la nuda e cruda cronaca di quanto accaduto, accade e ancora accadrà, a meno di una fattiva presa di coscienza della società civile, in primo luogo delle istituzioni, che segni il giusto e doveroso seguito all’iniziale indignazione. La deprecazione, difatti, dovrebbe essere affiancata da alcune considerazioni. La bambina non frequentava un asilo nido, come quasi tutti i piccoli alla sua età. Al momento dell’arresto, il prozio colpevole degli abusi, per discolparsi disse: «Che ci posso fare, le donne non sono nate per questo?».
Risulta facile capire in quale contesto sia maturato il tragico evento e, di conseguenza, è lecito chiedersi se e come i Servizi cosiddetti sociali operino anche nella provincia, spesso terra di nessuno, attraverso un monitoraggio della popolazione residente. Se riescano cioè a fare emergere le eventuali, gravi situazioni di disagio psico-fisico presenti in alcuni nuclei familiari. L’evasione scolastica nelle nostre regioni è ancora molto alta e i bambini, troppo spesso, sono usati per i più turpi scopi quando il profondo degrado funge da terreno fertile al proliferare delle situazioni a rischio, base di svariati abusi, che hanno per protagonisti i soggetti più fragili e indifesi.
Una davvero capillare rete di interventi sull’intero territorio nazionale potrebbe scongiurare o almeno ridurre tali pericoli. Di primaria importanza, dunque, risulterebbero sia l’individuazione dei soggetti inclini alla pedofilia e alla violenza che le successive azioni, miranti ad approfondire l’aspetto psicologico della cura e non alla repressione. Del resto, privilegiare solo l’azione repressiva rischierebbe di far crescere maggiormente il mercato da essa scaturito, creando sempre nuove vittime.
Nei confronti di tutti i bambini del pianeta, che sono il nostro futuro, abbiamo il dovere di impegnarci singolarmente, combattendo su più fronti nel difenderne l’integrità psico-fisica cui hanno diritto per essere i protagonisti, serenamente consapevoli, della loro esistenza domani.
Contributo a cura di Anna Loffredo