Sono tempi bui questi, sul piano politico ed economico, resi ancora più cupi dalle nubi di un oscurantismo, di caratura quasi medievale, che sta andando a offuscare diverse branche del sapere. Al progresso cavalcante della tecnologia, pare corrispondere un generale e paradossale regresso intellettuale. La medicina, come è noto, ormai quotidianamente deve fare i conti con l’ondata di scetticismo dei tanti che vedono in essa – agitati da false notizie – solo un’ancella delle case farmaceutiche. Come se non bastasse, inoltre, anche il piano giuridico sta conoscendo una forma di involuzione. Parliamo del cosiddetto populismo penale, vale a dire quella concezione del diritto che, trasgredendo ai suoi principi fondanti, muove il legislatore a normare assecondando gli istinti e gli umori delle persone, sempre più giudici spietati dietro ai loro schermi ghigliottinanti. La situazione di allarmismo creata, ad esempio, contro gli extracomunitari sta rischiando di farci approdare a delle soluzioni legislative aberranti. Basti pensare che con una legge del 2008 – poi fortunatamente e ovviamente dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con due sentenze – il Parlamento aveva introdotto una forma di aggravamento per il reato commesso dallo straniero non comunitario. Dunque, una circostanza aggravante basata su un profilo soggettivo di carattere alquanto razzista. Del resto, anche il dibattito, a tratti allucinante, degli scorsi mesi sulla questione della legittima difesa è una prova tangibile di quanto stiamo qui asserendo.
Dinanzi a tale condizione, può essere utile andare a riscoprire, quindi, quali sono le basi storiche e filosofiche del nostro sistema penale per comprendere come principi quali il garantismo, l’equità, la proporzionalità e la prevenzione non possano essere calpestati in uno Stato che voglia ancora definirsi civile. Questi concetti, difatti, non possono essere superati in nome di logiche malsane di potere. All’oscurantismo dilagante dei giorni nostri, proviamo a contrapporre i lumi dell’Illuminismo e della sua concezione di giustizia che è – e deve essere ancora – a fondamento del nostro ordinamento.
Impossibile, a tal proposito, non far riferimento a Cesare Beccaria e alla sua opera, Dei delitti e delle pene, nota per aver anticipato il tema dell’abolizione della tortura e della pena di morte. Il giurista, proseguendo il discorso avviato da Montesquieu in Francia e sviluppando i principi illuministici in tema di giustizia, può, a tutti gli effetti, essere considerato il padre del diritto penale moderno. Il suo sforzo fu mosso dal tentativo di superare la crudeltà e l’arbitrarietà che aveva caratterizzato gli impianti penalistici precedenti, dal Medioevo all’Antico Regime, approdando a quelli che sono i capisaldi di un ordinamento definibile garantista. Volendo fare una rapida analisi che ci possa consentire di capire in che modo debba intendersi il diritto, quindi, vi è da dire innanzitutto che per Beccaria – allo stesso modo di come dovrebbe essere per noi tutti – il diritto penale deve intervenire solo quando necessario e socialmente utile. Spetta a ciascun cittadino, infatti, conoscere in precedenza cosa sia consentito e cosa invece vietato dalla legge, in ordine a quella che deve essere la certezza del diritto, concepita proprio a tutela di ogni persona e della sua libertà. Dipoi, nel caso in cui si incorra nella violazione di una norma, la pena, secondo il principio di proporzionalità, è necessario che sia, appunto, proporzionale all’offesa cagionata, onde evitare eccessi di crudeltà. In aggiunta, la finalità della stessa deve essere unicamente preventiva e non punitiva o vendicativa, con lo scopo sia di impedire al reo di procedere nuovamente a una condotta lesiva, sia di sollecitare tutti i consociati a evitare di perpetrare il medesimo reato. È importante che anche la pena sia stabilita in modo chiaro e tassativo e, inoltre, per una funzione intimidatoria, quindi preventiva, emessa in tempi rapidi.
Come si può notare, il pensiero di Cesare Beccaria – qui delineato nei suoi soli aspetti fondamentali – contiene in sé tutti i caratteri idonei a rendere un ordinamento giuridico meritevole di essere definito all’avanguardia ed equo. Il suo insegnamento fu poi ripreso e approfondito anche da Gaetano Filangieri, ne La scienza della legislazione, da Gian Domenico Romagnosi, e da Mario Pagano, il quale, come il primo, si concentrò in special modo sulla teoria della minaccia penale quale contrario motivo rispetto i motivi a delinquere, carattere portante del diritto liberale.
Operata questa breve disamina, viene alla mente un detto che afferma che non sempre ciò che viene dopo è progresso. Tale assunto, infatti, in base a quanto abbiamo appena affrontato, pare particolarmente calzante. Dopo la parentesi del fascismo, – il cui codice penale, il codice Rocco del 1931 ancora in auge, subentrato al codice Zanardelli, pure era ed è pervaso, come il precedente, da quei principi, almeno sul piano formale – oggi pare che ci si voglia incamminare sul medesimo aggiramento, nonché esautoramento, degli stessi. Il Duce, come possiamo ricordare, lo fece con la forza in nome di un presunto preminente interesse dello Stato e dell’ordine pubblico, che serviva da pretesto per imporre la dittatura. Ai giorni nostri, invece, il tutto sta avvenendo in una maniera ancora più subdola, sotto una parvenza di democrazia e in barba a una Carta costituzionale, che, infatti, sancisce in maniera suprema anche quei caratteri giuridici sopra analizzati. E allora, precisamente, per cosa lo si vuole fare? Per qualcosa di simile? Per gli interessi e i tornaconti elettorali di chi vuole lucrare sulle paure e sulla disperazione delle persone, magari volendosi pure affacciare al balcone di Palazzo Venezia?
Proviamo a riaccendere i lumi, perché al buio, sopraffatti dal nero, noi italiani, noi brava gente, siamo stati capaci di produrre le peggiori mostruosità. Tentiamo di riaccendere il pensiero critico, perché non possiamo disperdere il nostro bagaglio culturale, se vogliamo viaggiare verso un futuro che non torni a sperimentare sentieri oscuri.