Se fossi lì in mezzo
Avrei novant’anni
Avrei dei nipoti con cui litigare
Ma ho fatto una scelta
In libera scelta
Non credo ci fosse altra scelta da fare
Scelta migliore
Il 25 aprile ricorre l’anniversario della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista, il giorno in cui, nel 1945, si proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora sotto il controllo del regime. Le forze partigiane attaccarono i presidi del Reich e costrinsero alla resa i fedeli del Duce.
Luciano Tondelli era uno di loro, un partigiano, non aveva neanche vent’anni. Il ragazzo e mai l’eroe. Canta di lui Ligabue, il brano è I campi in aprile, contenuto nell’album Giro del Mondo (2015). A unirli, il nome di battesimo e la città di Correggio, nella provincia emiliana, una regione rossa non di limitazioni imposte, ma di vocazioni e ideali, di storia e coraggio, di un futuro tutto da conquistare. Rossa come la terra al cedere del ragazzo, come la bandiera – non a caso il soprannome di Tondelli – che ancora sventola quando a parlare è la Resistenza.
C’è un 15 aprile accanto al suo nome. Luciano fu ucciso aspettando l’estate. Mancavano solo dieci giornate. Con lui, tanti altri, migliaia, dai Balcani alle Alpi e giù, lungo la colonna dell’intero Paese, le colline del Centro e le terre roventi di un Sud fregato due volte – come da tradizione – prima dagli alleati, poi da chi di colpo era il nemico contro il quale puntare le armi. Scontri a fuoco, rastrellamenti, torture resero le madri fantasmi, echi lontani di un tempo ormai andato, quando inesperte si erano lasciate amare dando vita a un fiore. Un papavero, un altro, un intero campo. Il profilo tracciato dall’Appennino è una schiena ricurva del loro sangue, del loro sudore.
I discorsi d’allora
Sono migliaia i papaveri rossi d’Italia, colorano i prati delle campagne e si arrampicano fin sulle cime dei monti, non temono il freddo né la siccità. Non temono il tempo. Presidi di storia e di storie, si difendono solo dal vento, che gli strappa via i petali, portandoli in giro come con le parole. Ognuno con il suo racconto, con la sua voglia di raccontare, con i propri discorsi d’allora.
Tra loro, i poeti soffrono del rimpianto di un passato che, sanno, non resterà. Uno stelo sciupato dal tempo è quello di Giuseppe “Pino” Bartoli, sbocciato a Brisighella, tra i colli tosco-romagnoli, nel luglio del 1920, tornato alla terra ottantaquattro anni più tardi. Una vita per la politica, per il suo paese natale, Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Partigiano.
Giuseppe, con i propri semi, i versi delle sue poesie, ha presentato la responsabilità di questo nostro futuro. Pacato nei modi – come ricordato dalle poche pagine a lui dedicate, piccoli avamposti di resistenza e memoria –, deciso nelle scelte, e forse scordato per questi motivi. Cantava per la speranza che vedeva nei giovani e la gioia che sapevano offrirgli.
I DISCORSI D’ALLORA
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le nostre tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Il ritratto degli italiani
Sono trascorsi settantasette anni da quel giorno, dalla Liberazione. Molti di coloro che hanno combattuto non ci sono più, altri sono ormai troppo anziani per ricordare. E, così, la memoria che tiene vivi i diritti, i popoli, gli ideali si fa sempre più labile, troppo per non temere che, presto, il passato possa tornare a bussare alle porte di chi non saprà come rispondergli. D’altronde, lo sta già facendo.
A lungo, la Resistenza è stata il ritratto degli italiani. Non più soltanto un popolo di poeti, santi e navigatori, ma anche di rivoluzionari, uomini e donne capaci di ribellarsi al padrone, di rovesciare il regime in nome della libertà, propria e di quella delle generazioni future. Un moto d’orgoglio da rivendicare ogni anno col sole tiepido d’aprile. Oggi, è soltanto un capitolo della storia del nostro Paese. Quella rivoluzione che ha significato la fine di uno dei periodi più bui dell’umanità è diventata, infatti, una commemorazione divisiva, l’occasione perfetta per riaffermare i propri rigurgiti di nero vestiti. È il revisionismo storiografico, un processo di mistificazione che tende ad alterare, per rimuovere, la certezza della verità storica al fine di costruirne una del tutto nuova, contraria e menzognera, funzionale, però, a cambiare il sentire comune.
Una festa divisiva
Ecco che, allora, la Resistenza si sta trasformando in violenza da condannare, in una logica che avrebbe voluto, in risposta all’occupazione, allo sterminio, ai campi di concentramento, una rivolta diversa, meno cruenta. Lo chiamano il fascismo degli antifascisti, nient’altro che la condanna delle rivolte partigiane e di coloro che provano a tramandarne le gesta per non dimenticare. È il tentativo, disperato e – purtroppo – sempre più efficace dei diretti seguaci di Mussolini e della dittatura che consegnò l’Italia, l’Europa e il mondo tutto ad anni di cui ancora si portano i segni. Incisi negli occhi, sulla pelle, nella memoria di un genitore mai tornato dal fronte. Nella violenza che si riverbera fuori e dentro le mura dei palazzi istituzionali.
Lo sa bene Liliana Segre, lei che la guerra ce l’ha scritta sull’avambraccio. Se la porta dietro da sempre, dal febbraio del 1944 quando, dopo sette giorni di viaggio, arrivò nel campo di concentramento di Auschwitz. 75190. Non era un nome, non era una bambina, non era nemmeno un essere vivente. Soltanto un numero, un codice identificativo, un corpo spogliato della sua stessa umanità. Uno di quei pochi che riuscirono a venir fuori dall’inferno: erano venticinque. Venticinque su settecentosettantasei bambini deportati nella fabbrica della morte, a Malchow.
Dal 2018, per volere del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Liliana è senatrice a vita. La sua storia riecheggia nelle scuole di tutto il Paese, nelle assemblee pubbliche, nei dibattiti a cui non ha mai rinunciato e che l’hanno costretta, presto, alla scorta. Colpevole di essere sopravvissuta. Nemica di chi, forse, non ne avrebbe mai voluto il ritorno. A lei è intitolata la Commissione monocamerale istituita nel 2019 quale strumento di controllo per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, una commissione talmente necessaria da dividere politica e opinione pubblica in nome della fantomatica libertà di espressione dietro cui si celano, oggi, coloro che l’hanno negata e la negherebbero ancora.
«L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. L’apatia morale di si chi volta dall’altra parte». Succedeva allora, prima che la consapevolezza partigiana maturasse, «succede anche oggi, verso il razzismo e gli altri orrori del mondo». Perché la guerra, si sa, piace solo a chi non l’ha vissuta.
La Resistenza dimenticata
Adulti e appena ragazzini, uomini ma anche donne. Sono decine di migliaia i cuori che hanno smesso di battere per la libertà. Come quello di Giulia Lombardi, uccisa ad appena 22 anni dalla furia fascista. Il monumento a lei dedicato è stato incendiato nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 2019, a Vighignolo, una frazione di Settimo Milanese. O quello di Gina Galeotti Bianchi, fucilata a 32 anni, incinta di otto mesi mentre, pedalando, annunciava a Niguarda l’ordine di insurrezione. Era una staffetta, una delle tante senza le quali non sarebbe stata possibile la Resistenza.
Portavano cibo, riviste, notizie, materiali di propaganda, armi. Spesso nascondevano gli uomini impegnati al fronte, partigiani feriti, soldati in fuga, perseguitati. Se ne prendevano cura, li sfamavano, li accoglievano nelle loro case, ne condividevano gli spazi e il timore. Molte di loro parteciparono persino alla lotta armata. Una rivoluzione nella rivoluzione. Come quella di Maddalena Cerasuolo, Lenuccia, operaia e ribelle. Il suo nome è inciso sul ponte della Sanità di Napoli, uno dei simboli più imponenti delle Quattro Giornate. Era il 1943.
Le donne che combatterono per la Liberazione furono almeno 70mila, forse di più. La loro, però, è una Resistenza dimenticata, una guerra che – probabilmente, per la prima volta – le rese più vicine agli uomini, a un’insperata e incipiente uguaglianza di genere capace di sovvertire un ordine fino a quel momento naturale e, tuttavia, ripristinato di lì a breve. Di loro, di una donna, racconta Renata Viganò nel suo L’Agnese va a morire, la lavandaia in cui la fatica del conflitto armato si compie, vedova e partigiana, titanica. Del 1965, invece, è il documentario di Liliana Cavani, Le donne della Resistenza, uno dei pochi dedicati all’argomento e ancora oggi preziosa testimonianza.
Nemmeno a loro, il regime fece sconto alcuno:
1859 le donne vittime di violenza e stupro
4635 le donne arrestate, torturate, condannate
2750 le deportate
623 le donne fucilate o cadute in azione
Appena diciannove, invece, sono le partigiane che hanno ricevuto la medaglia d’oro al valore: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu.
Ci siamo liberati?
Non esiste, oggi, un fascismo di Stato e, forse, non è produttivo parlare alle nuove generazioni di un concreto pericolo del suo ritorno. Tuttavia, non va sottovalutata una nuova e rinnovata componente strategica dell’ideologia fascista, che si ripropone sotto forme meno cruente ma più subdole, che si modellano sui mutamenti sociali, e di cui sono promotori il sovranismo e il populismo.
Indirizzare l’attenzione del sentire comune verso i rigurgiti di ciò che furono i principi che portarono alla costituzione del Partito Fascista rischia di distoglierla dalle minacce che mettono in pericolo la democrazia. I movimenti attuali godono, infatti, di uno spazio di influenza ben più ampio di qualunque altra iniziativa passata e si rivolgono a una platea mai tanto priva di saldi punti d’appiglio. Parlando di governo del popolo, chiamano all’espressione della volontà popolare continuamente, rendendo, così, l’individuo non più un giudice attento dell’attività politica in essere ma una comparsa che affolla la scena mentre, nell’ombra, chi ne tiene i fili può continuare a operare indisturbato.
Il fascismo di oggi utilizza slogan, etichette, poche parole che cercano di tagliare il filo che li lega al passato che, invece, li ispira. I richiami dei movimenti attuali non inneggiano direttamente ai leader del Ventennio, a Hitler o a Mussolini, ma sortiscono nei propri seguaci lo stesso effetto, incitano alla violenza, a giustificare le morti di cui ancora si rendono responsabili, sia esplicitamente – come nei casi recenti di razzismo –, sia indirettamente – quando si invoca la forza dell’uomo o anche del mare contro le invasioni delle popolazioni migranti.
Esemplificativo è il caso dell’attentato Traini, a Macerata nel febbraio 2018. Il capo del partito di riferimento dell’aggressore che sparò a degli uomini di colore tra le strade del centro cittadino, Matteo Salvini, non dichiarò mai di schierarsi al suo fianco. Eppure, il segretario della Lega addebitò le cause di quell’episodio alle scellerate politiche di accoglienza promosse dai governi che avrebbero preceduto il suo.
Il fascismo moderno muove la sua missione di indottrinamento al razzismo e all’anti-politica come garanzia del sistema democratico rendendo questi temi pop, mandandoli in giro in maniera capillare sulle piattaforme di comunicazione più comuni e diffuse, i social. Sulle pagine Facebook la violenza è verbale, intimidatoria, prende la forma della rappresaglia, dell’annientamento psicologico dell’individuo etichettato come nemico del proprio leader e della missione politica a cui si ispira.
Il fascismo, allora come oggi, al contrario, nega ai Paesi quella crescita politica, economica, culturale su basi democratiche di cui hanno assolutamente bisogno. Così, nel caos che si genera, una logica esclusivista viaggia indisturbata, si insinua nel quotidiano di ognuno, vestendosi bene, vendendosi meglio: il mercato. Così, le merci restano le uniche a godere davvero della libertà.
Memoria
Siamo noi i suoi nipoti, i nipoti di quel partigiano partito per sempre a neanche vent’anni, seduti al tavolo della cucina ad ascoltare la storia. La stessa ogni volta, e ogni volta diversa.
È il 25 di aprile, la Liberazione, un’alba sui campi di cui ancora godiamo, il domani di ieri che è presente ancora oggi, l’invito alla solidarietà, alla coscienza, alla Resistenza.
Ciò che erano, ciò che sono, ciò che rimane. Che non se ne va.
I campi in aprile
Promettono bene
Se questa è la terra
È proprio la terra che non lascerò
Luciano Tondelli
È ancora il mio nome
Sappiate comunque che non me ne andrò
Contributo a cura di Alessandro Campaiola e Flavia Fedele