«La nostra mafia non ha più la sensibilità e il coraggio di un tempo»: se non fosse vera, ci rideremmo su. Invece, l’ex senatrice della Lega ed ex vicesindaco di Lampedusa Angela Maraventano ha avuto il coraggio di pronunciare questa frase a gran voce durante una manifestazione pro Salvini (di ben tre giorni!) che si è tenuta a Catania prima del processo per il caso Gregoretti, proseguendo poi con una precisa attribuzione di responsabilità. «La colpa è nostra, che la stiamo completamente eliminando, perché nessuno ha più il coraggio di difendere il nostro territorio».
Un’affermazione da far accapponare la pelle, che è stata inizialmente liquidata come infelice ed estrapolata da un discorso più ampio, ma il cui senso, in realtà, è ben chiaro e difficilmente fraintendibile. Essa tradisce innanzitutto un’ignoranza del fenomeno mafioso, ma soprattutto lascia trapelare un sentimento nostalgico estremamente spaventoso. La narrazione di una mafia buona, coraggiosa, che difende i bambini e offre ai più deboli quelle opportunità che lo Stato non sempre mette a disposizione non è certamente nuova e la sua provenienza è sempre la stessa: chi giustifica e quasi elogia certe forme di malavita – addirittura esprimendo un sentimento di possesso – ne condivide i valori e le modalità.
Non esiste una mafia buona né la sua esistenza può essere giustificata con la presunta difesa del territorio e dei confini. Certo è che ciò non dovrebbe stupirci, considerando che i nostri rappresentanti politici avallano e addirittura finanziano organizzazioni criminali che con la violenza e la costrizione impediscono l’emigrazione da luoghi di sofferenza e torture come la Libia. Stringere accordi con chi perpetua tali violenze e chiederne l’aiuto per impedire la cosiddetta invasione di migranti equivale, di fatto, ad appartenere a un’organizzazione criminale perché se ne promuovono le stesse sedicenti finalità securitarie.
Angela Maraventano, dopo lo scoppio delle polemiche, ha deciso di lasciare il partito, precisando però che continuerà a fare le sue battaglie, contro le mafie dei tunisini e dei nordafricani. Un’affermazione che conferma quanto finora detto, nonché il tentativo di recupero di una mafia nostra, che non può e non deve esistere. Si tratta di un’offesa gravissima alle famiglie vittime di criminalità organizzata, che si sono viste portare via i loro bambini, le vite dei propri affetti più cari e la speranza di una vita normale, lontana da violenze e soprusi.
In fondo, la lotta contro le organizzazioni criminali, in Italia, non ha una breve storia e nella maggior parte dei casi ha visto uscire sconfitti magistrati, istituzioni e cittadini onesti, svelando, con il passare degli anni, un legame sempre più stringente tra mafia e politica. Ciò che caratterizza la malavita nel nostro Paese è, infatti, la sua presenza tangibile sui territori, la percezione del suo ruolo nelle città, che si manifesta addirittura nelle configurazioni territoriali, nel modo di costruire e pensare gli spazi. Il modello mafioso italiano si differenzia, inoltre, perché si serve dello Stato per estendere il suo potere, infiltrandosi nelle istituzioni, arrivando nei Comuni e nelle Regioni, influenzando e facendo proprio tutto ciò che è pubblico, dalle convenzioni agli appalti, dai bandi alle sovvenzioni. Per comprendere l’entità di tale fenomeno basti pensare che se l’economia criminale, a livello mondiale, rappresenta il 3% del PIL, in Italia equivale al 10%. Ecco perché lo Stato non è mai riuscito – e in molti casi non ha voluto – porre un argine a quella che è una vera e propria piaga, diffondendo nei cittadini la percezione che bisogna conviverci, un sentimento di rassegnazione che, invece, va assolutamente evitato.
La mafia si nutre di disagio sociale, interviene laddove gli apparati statali sono assenti, si veste da salvatrice e diventa madre di quei cittadini che non si sentono figli di alcuna istituzione. Nessuna organizzazione criminale può avere sensibilità, né coraggio, poiché risponde esclusivamente a dinamiche violente, dell’imposizione del più forte sul più debole, in una catena in cui il più grande mangia il più piccolo, senza possibilità per questo di difendersi in alcun modo. Al netto delle dichiarazioni di Maraventano, dunque, sarebbe importante una presa di posizione seria e determinata da parte delle istituzioni per negare qualsiasi appartenenza, anche culturale, alla mafia che purtroppo continua a controllare i nostri territori, estirpando dalle famiglie giovani a cui viene negata qualsiasi speranza di futuro.
E se l’ex senatrice di Lampedusa accusa il governo di trafficare carne umana, lei poche settimane fa si sdraiava al centro di una strada per impedire il trasporto di migranti al centro d’accoglienza di Lampedusa al grido di Italia e Sicilia libere, con scene degne della marcia su Roma. Credeva, forse, di salvarli impedendo loro di arrivare in Italia? O, molto più semplicemente, come ha ribadito a più riprese, queste non sono persone che hanno bisogno di essere salvate?
Alla Maraventano – che crede in una criminalità buona – probabilmente sfugge che la “sua” mafia si nutre della disperazione dei migranti che arrivano qui in Italia e li inserisce tra le proprie fila perché le istituzioni non sono in grado di creare canali di regolarizzazione degli stranieri cosicché essi non abbiano bisogno di nascondersi, delinquere e vivere clandestinamente in eterno. La soluzione non è consegnarli alla guardia costiera libica o alle altre organizzazioni criminali che lucrano sulla loro pelle, bensì offrire un’opportunità reale di riscatto, in un Paese in cui nessuno dovrebbe avere paura di gridare, riprendendo le parole di Peppino Impastato, che la mafia è una montagna di merda, e lo sarà sempre.