La fotografia per Lewis Wickes Hine era un naturale mezzo espressivo di testimonianza, non soltanto per conservare ciò che osservava, ma anche e soprattutto per far conoscere realtà difficili. Il fotografo americano si recava spesso in luoghi dove era evidente lo sfruttamento minorile, ma anche del lavoro in generale, e fu proprio questo il fulcro della sua esperienza: «Ho seguito per anni la processione di bambini lavoratori in mezzo a migliaia di comunità industriali, dalle fabbriche di scatolame del Maine ai campi del Texas. Ho udito le loro storie tragiche, ho visto le loro vite disgraziate e ho assistito ai loro sforzi vani nella contesa industriale, dove la scommessa è sempre perduta per loro».
Lewis Hine stesso, in giovane età, lavorò come manovale, esperienza che lo spinse a raccontare grazie alla fotografia un mondo spesso dimenticato. Nato a Oshkosh nel Wisconsin, il 26 settembre del 1874, si trasferì a Chicago per studiare sociologia e psicologia all’università, ma un anno dopo si iscrisse alla School of Education della New York University conseguendo un diploma in pedagogia. Iniziò a insegnare praticamente subito dopo e dal 1904, per documentare l’attività scolastica quotidiana, cominciò a fotografare utilizzando il grande formato, una Graflex 4×5 e una macchina più piccola di 5×7 pollici.
La fotografia divenne subito un mezzo di espressione e documentazione fondamentale per Hine che continuò, idealmente, il lavoro di Jacob Rijs, il quale proprio nella Grande Mela aveva realizzato un vasto quanto drammatico reportage sugli slums newyorkesi. Questa nuova esperienza lo coinvolse a tal punto da organizzare, presso la Ethical Culture School, un corso di fotografia a cui partecipò anche un giovane Paul Strand che lo considerò sempre suo maestro. Negli stessi anni, anche Alfred Stieglitz, come scrive Italo Zannier ne L’occhio della fotografia, si occupò dell’attività di Hine, nonostante questi fosse piuttosto lontano dall’impegno culturale del Photo-Secession, che tendeva soprattutto a una ricerca sull’estetica della fotografia, al di fuori del documentarismo “freddo” di Hine.
La fotografia era per Hine un modo per approfondire la sua indagine sociologica, creare delle testimonianze visive di alcuni aspetti che molti ritenevano incredibili e di una realtà che, in veste di sociologo, era per lui materia di continuo studio. Lo scatto divenne quindi una vera e propria arma, affinché nelle immagini impresse fosse possibile analizzare e cogliere ciò che poteva sembrare sfuggente. Per la prima volta infatti, escludendo il lavoro di Rijs, furono fotografati i bambini dei quartieri immigrati europei – tra cui molti italiani – utilizzando il lampo al magnesio che gli permise di svelare le realtà in ombra. Ben presto, il fotografo decise di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi completamente al giornalismo sociologico e nel 1908 fondò la Hine Photo Company, organismo che distribuiva le sue fotografie ai giornali e alle organizzazioni culturali, sindacali e politiche che ne fecero spesso uso come strumento di propaganda.
Una delle inchieste più famose mai realizzate da Hine, nei suoi primi anni di attività, fu quella del 1908 sui minatori di Pittsburgh, sullo sfruttamento del lavoro minorile a New York e sulle vicissitudini degli immigrati europei. In quest’ultimo caso, il fotografo americano seguì la povera gente dal porto della città, dove arrivavano bastimenti carichi, fino ai ghetti dei quartieri periferici. Il lavoro minorile fu, dunque, l’argomento più trattato da Hine – che tenne anche un diario di appunti su queste esperienze – realizzando immagini dall’incredibile partecipazione sentimentale e che, fortunatamente, ebbero un grande effetto positivo. Questi scatti, infatti, spinsero le autorità a definire una nuova legislazione nel settore poi promulgata circa dieci anni dopo, nel 1920. Furono molte le campagne fotografiche che Hine realizzò per il National Child Labor Committee, così come le conferenze. Tantissime furono poi le mostre e le proiezioni di diapositive cedute anche a noleggio proprio perché credeva fortemente nella capacità comunicativa e persuasiva della fotografia come mass media. Dopo vari lavori – che lo portarono a viaggiare anche in Europa e ad avere problemi economici – nel 1930 il fotografo-sociologo ricevette l’incarico di documentare, nelle varie fasi di costruzione, l’Empire State Building. Questa commissione gli permise di esprimere la sua ideologia sul lavoro visto in chiave umanitaristica e ottimistica.
Lewis Hine lasciò impresso, in oltre 50mila lastre, il segno della sua fede nella fotografia, come mezzo autonomo e autosufficiente di indagine sociologica, capace di grande efficacia documentaria ed evocativa. Prima di molti altri, capì che l’educazione, da sola, non era sufficiente ad analizzare e denunciare quanto stava accadendo in quegli anni. E fu proprio la fotografia, inizialmente un semplice supporto alla sua attività di insegnante, a diventare quel mezzo importante di denuncia che potesse, allo stesso tempo, celebrare l’uomo, la dignità del lavoro e, soprattutto, promuovere nuove riforme sociali, con l’obiettivo di crescere generazioni consapevoli e scuotere le coscienze.