È estate ed è tempo di vacanza. È il momento di staccare, di concederci qualche giorno di tranquillità, di prenderci una pausa dai frenetici ritmi della quotidianità e da quei pensieri che ci affliggono tutto l’anno. È il momento di respirare, di fare pilates, una passeggiata in montagna e un bagno al mare. Eppure, c’è qualcosa, un piccolo dettaglio, che ci impedisce di rilassarci completamente. Non parlo del caldo atroce, che certamente sta tormentando i nostri corpi sempre sudati e sul punto di ribollire, quanto della consapevolezza di cosa quel caldo rappresenti. Negli ultimi anni, più di qualunque altro periodo, l’incombente e minacciosa ombra del cambiamento climatico ci ha seguito, terrorizzato, e ci impedisce oggi di rilassarci del tutto. Perché non c’è proprio niente per cui stare tranquilli.
Mentre ci lamentiamo delle temperature elevate, sentiamo rispondere da più fonti che, pensa un po’, quella che stiamo vivendo sarà l’estate più fresca della nostra vita d’ora in poi. Che quella che ora malediciamo, quella che non ci fa respirare, sarà l’estate che invidieremo, che invocheremo a gran voce tra dieci anni. Perché ciò che stiamo vivendo può solo peggiorare. Non so bene come immaginarmelo il futuro, il mondo tra vent’anni, e la mia immaginazione non lavora su basi scientifiche, eppure non posso fare a meno di pensare che, un giorno, d’estate vivremo di notte. Che verso la fine di maggio e l’inizio di giugno le società globali avvieranno il processo di transizione, un po’ graduale per non soffrire di troppo jet leg, dal giorno alla notte, in modo da arrivare a vivere i roventi mesi estivi nelle ore buie.
Non mi immagino solo un caldo insopportabile che porta a tale decisione. Mi immagino un mondo in cui se esci di casa sotto il sole alto di luglio, muori. Bruciato dal sole in assenza dello strato di ozono, o per un colpo di calore a causa delle temperature altissime. Mi immagino i cittadini del mondo rinchiusi in casa, con la sveglia alle 18, quando il caldo inizia a calare e il primo passo fuori casa da non fare prima delle 19. Mi immagino le estati al buio, in cerca di ombra, in cerca di salvezza da una morte certa. Mi immagino i ricchi con le loro case collegate da tunnel sotterranei, che se c’è un’emergenza possono raggiungere l’ospedale in sicurezza, e mi immagino i poveri morire di infarto perché nessuna ambulanza è autorizzata a uscire sotto il sole cocente di mezzogiorno.
Sembra la trama di un romanzo distopico per ragazzi, di quelli ambientati in un futuro post apocalittico. Il problema è che l’apocalisse la stiamo già vivendo, e iniziamo lentamente ma finalmente a rendercene conto. Non è follia, non è assurdità ciò che la mia mente plasma se la lascio vagare. È solo una non troppo irrealistica elaborazione di dati.
Solo nel mese di giugno, quello che dovrebbe essere il più fresco dei mesi estivi, il riscaldamento globale in Europa è arrivato a +2.5°C. Secondo le rilevazioni del National Oceanic and Atmospheric Administration si è trattato del secondo giugno più caldo dal 1910 a oggi, inserito all’interno di un lasso di tempo in cui le dieci temperature medie più alte sono tutte concentrate nel periodo dal 2010 a oggi. Dati impressionanti, numeri che messi nero su bianco rendono tutto più reale, più vero, più imminente, no? Beh, non so se vale per tutti, ma per me no. Non mi serve leggere questi dati per comprendere la situazione in cui ci troviamo. Questo è uno dei rarissimi e sporadici casi in cui la percezione personale coincide con la realtà dei fatti. Perché non ho bisogno di leggere le medie e le temperature per sapere che questa è l’estate più calda mai vissuta in vita mia. Che la siccità inizia a essere spaventosamente pericolosa. Che ci avviciniamo sempre più imprudentemente a una soglia che conduce alla morte per ebollizione. Perché il mio corpo lo sente da sé.
Ma il mio, di corpo, è fortunato. Quello che sente è caldo, quello che prova è sudore, talvolta pressione bassa e mal di testa, ma niente di più, niente di grave. Per il mio corpo è ancora disponibile il cibo, per il mio corpo c’è acqua da bere e pure per lavarsi, c’è il ventilatore e, quando proprio non respira, si può godere il gelo artificiale concesso a caro prezzo dall’aria condizionata. Esistono corpi, invece, che del cambiamento climatico sono vittime. Esistono corpi annegati o sotterrati dalle alluvioni, perché gli eventi atmosferici estremi dovuti al cambiamento climatico mietono più vittime di quanto fingiamo di non vedere. Ci sono corpi senz’acqua, che evaporano lentamente fino a morire. E ci sono corpi erranti, quelli dei migranti climatici, che cercano un luogo in cui rifugiarsi, perché a casa loro per un motivo o per un altro non c’è più ospitalità per la vita.
Nel 2021, solo le alluvioni in Europa centrale nel mese di luglio hanno causato oltre 220 vittime. Un dato che fa ancora più paura se si pensa che noi, dal piedistallo del Vecchio Continente, noi responsabili del cambiamento climatico, siamo quelli che ne subiscono le minori conseguenze. Per sfortuna geografica, sono i luoghi del mondo già poveri – ovviamente – a subire maggiormente i danni delle nostre azioni: sono i paesi poveri che affrontano le più gravi siccità e le conseguenti carestie, tutte causate dall’industrializzazione dei paesi ricchi. E mentre noi affanniamo per i 40 gradi, dall’altra parte del mondo c’è gente che muore, di fame, di sete e di caldo.
Qualche stima ha decretato che abbiamo solo sette anni per salvare il pianeta. Qualcun altro dice che è già troppo tardi, ma da questa narrazione disfattista prendo le distanze, perché ci induce a pensare che, se non c’è più nulla da fare, tanto vale non sacrificarsi per nulla. Sembra una giustificazione all’inerzia. Ciò che è certo è che il cambiamento climatico sta distruggendo, sta uccidendo, sta annientando. E non ci servono i numeri per rendercene conto, anche se forse ne abbiamo bisogno per agire, per chiedere ai nostri governi politiche più incisive, per imporre alle istituzioni linee guida più chiare, e anche per piccole azioni personali più utili.
Questa è l’estate più fresca della nostra vita d’ora in avanti. Questa, in cui non respiriamo, in cui siamo stanchi di sudare, in cui la terra non ha mai bruciato così tanto e le vittime del cambiamento climatico raggiungono picchi spaventosi, questa sarà un sogno tra qualche anno. E quelle di dieci o quindici anni fa, che oggi invidiamo, inizieremo a pensare che non siano mai esistite. Questa è l’estate più dura della nostra vita finora, e spero possa diventare anche l’ultima in cui restiamo in balia degli eventi. Questa dovrebbe essere, più di ogni altra, l’estate della presa di coscienza, quella in cui al senso di costante pericolo che sotterriamo nei meandri della nostra testa, possano seguire l’azione e la determinazione.