L’esibizione furibonda di Beppe Grillo, accorso in difesa del figlio indagato per stupro nell’imminenza del suo rinvio a giudizio, occupa da qualche giorno il dibattito sui media tradizionali e sul web. Ai suoi ululati paonazzi hanno fatto seguito, come c’era da aspettarsi, una pletora di dichiarazioni. Tra queste spiccano in particolare due tendenze. La prima è la ripresa dell’inesauribile discorso intorno allo stupro accompagnato da campagne di sensibilizzazione e da narrazioni vittimizzanti; la seconda è l’espressione di solidarietà per Grillo in quanto padre. Entrambi gli argomenti indicano a proprio modo che siamo ancora ben lungi dal riuscire ad affrontare una discussione seria sullo stupro e la cultura dello stupro partendo da una base neutrale di parità.
Al contrario di quanto è stato sostenuto nelle ore successive all’uscita del filmato, dove si è portata più o meno diffusamente avanti la tesi dell’uomo che ha compiuto un gesto mediaticamente folle (quasi un suicidio), crediamo che questa particolare uscita di Beppe Grillo sia, in termini di scopo e risultato, una performance, un rischio calcolato con accuratezza. Tanto per cominciare, la roboante veemenza del tono, la gestualità delle mani, le smorfie del viso sono perfettamente in linea con il personaggio Grillo. Si è prestata grande attenzione al contenuto indegno del videomessaggio, trascurando quasi totalmente l’importanza che tono e gestualità hanno avuto nella genesi del politico (nato, del resto, proprio dal palcoscenico). E, invece, è proprio attraverso l’eccesso di rabbia elettrica emanata dal capo scarmigliato, dal volto congestionato, dalle parole strozzate in un mezzo grido di gola e dai pugni sul tavolo, che Grillo compie l’operazione più importante.
Immaginate che una persona, un personaggio pubblico, si segga davanti a voi e cominci a elencarvi per punti e con lucidità che un uomo non può essere colpevole del crimine di cui è accusato perché, se lo fosse, si troverebbe già in galera; che una donna che presenti denuncia di violenza sessuale dopo una settimana non sia da ritenersi credibile; che sia possibile sempre dedurre il consenso da foto e video amatoriali scattate con uno smartphone. Senza l’elemento del sangue che ribolle, delle parole pronunciate nell’impeto dell’ira, dareste a questo messaggio un peso diverso. Comincerebbe a farsi largo nella mente il pensiero che si tratti meno dell’opinione di un padre ferito e più di una radicata presunzione di superiorità. È bene specificare che, per presunzione di superiorità, non intendiamo solamente sottolineare (come è stato già fatto a più riprese) il furore giustizialista. Quello a cui ci riferiamo va più a fondo e trova la sua realizzazione nel bias di sessismo alla base del nostro modello sociale.
Il tentativo di Grillo di colpevolizzare la giovane donna (qualcuno ha usato qui il termine di vittimizzazione secondaria) non è diverso dallo sguardo inquisitore e lascivo che l’opinione pubblica riserva al corpo femminile e a tutto ciò che a esso accade. Non è diverso dal sostenere che le molestie siano inevitabili espressioni del desiderio maschile, non è diverso dal dire che l’abbigliamento o l’orario della giornata o l’indole festaiola di una persona fungano da discrimine nella valutazione dell’avvenuta violenza, non è diverso dal credere che le donne perbene non facciano certe cose.
Il fatto che Grillo abbia scelto d’interpretare il personaggio Grillo in quel videomessaggio rende impercettibile la distinzione tra questo bias e l’espressione di una posizione e di un’opinione personali. Si mescolano le carte: si crea confusione tra la libertà d’espressione di un padre addolorato, un personaggio pubblico che si espone per salvaguardare il buon nome del figlio, e l’espressione di un’intolleranza e di un’insofferenza che hanno un nome e un bersaglio e che prova a incatenare ancora e ancora la libertà delle donne. Il ricorso agli stessi espedienti spettacolari del Grillo da palcoscenico ottiene, poi, il risultato secondario di ridurre in farsa l’intera faccenda, consegnando la testimonianza della donna e l’intera indagine al carnevalesco regno dell’assurdo cui appartiene il suo personaggio. Compie, così, un’operazione mesmerica che trasla l’attenzione del pubblico dal presunto crimine di stupro all’area più sfumata del consenso all’atto sessuale.
A questa operazione ha contribuito, suo malgrado, la stampa che continua ad affiancare il video alle testimonianze, ai racconti, agli appelli delle donne vittime di violenza. Se superficialmente ciò appare come una reazione di condanna delle parole di Grillo, un modo per controbilanciare un attacco violento con le voci delle survivor, a un livello più profondo d’analisi ci pare assurdo che gli unici casi in cui le donne vengano seriamente chiamate a esprimersi siano quelli in cui si reitera la posizione del soggetto donna come vittima. Ponendo, poi, il coro di voci a contraltare del singolo, iroso boato di Grillo, si lascia intendere a livello subliminale l’esistenza di un dibattito polare sempre in corso che mette in discussione non tanto la singola testimonianza, ma il concetto stesso di violenza sessuale. Di nuovo, siamo nel reame delle opinioni. Da qui ci si può permettere di dire qualunque cosa e di fare qualunque distinguo, come quello (letto e riletto) secondo il quale, pur prendendo le distanze dalle sue parole, molti si sono sentiti in dovere di esprimere solidarietà a Grillo in qualità di padre. Di tutta la vicenda, è forse questa a mostrare più chiaramente i bias di cui parlavamo prima.
Cosa significa, infatti, prendere le distanze dal gesto se poi si ammette di comprenderne i motivi sulla base di una sedicente solidarietà paterna? E cosa rappresenterebbe questa solidarietà, espressa al padre del presunto stupratore e non alla ragazza che ha denunciato lo stupro o alla sua famiglia? Se pure volessimo partire dall’ipotesi, cara agli affezionati della famiglia nucleare patriarcale, che il ruolo principale di un padre sia proteggere il figlio a tutti i costi, come si fa a dare per assodata questa verità e non interrogarsi, invece, per niente sull’incidenza dell’esempio e dell’educazione paterna sui figli?
Infine, fa parte del rischio calcolato dell’esibizione grillina l’appropriarsi della scena, il monopolizzare lo sguardo sovreccitato del produttore di notizie affamato di spazi pubblicitari e del fruitore annoiato. Rendendosi bersaglio e fulcro centripeto del ciclone di polemiche, ha allontanato dai riflettori il figlio accusato e ha trasformato in accusata la donna che ha denunciato la violenza. Lei, che vede esposti in questi giorni i particolari del suo stupro dappertutto, non ha diritto alla quiete.