L’Esercito di Terracotta dell’Imperatore Qin Shi Huangdi, ospitato nella Basilica dello Spirito Santo di via Toledo, ha espugnato Napoli. È, infatti, una delle mostre di maggior successo di questa stagione, un trionfo di spettatori che ha convinto gli organizzatori a prorogarne l’apertura fino al 5 agosto 2018.
Ultimi giorni, dunque, per ammirare ben centosettanta guerrieri di terracotta, tutti a grandezza naturale e tutti con i paramenti dei soldati, armature e calzari – copie di una piccola parte del famoso esercito composto di ottomila statue e un ricco corredo funebre che dal III secolo a.C. sorveglia il mausoleo del primo imperatore della Cina –, per un totale espositivo di trecento pezzi, tra soldati, armi, suppellettili, vasellame e oggetti d’arte, riproduzione precisa, creata da artigiani locali secondo gli antichi procedimenti di fabbricazione e la tecnica del calco. Entrando nella splendida navata l’impatto visivo è sorprendente, così come è suggestivo ripercorrere la storia attraverso i pannelli esplicativi, gli inserti audiovisivi, le videoproiezioni e le audioguide che spiegano il periodo storico e culturale, usi e costumi della Cina che fu.
Una vicenda affascinante quella della tomba imperiale e dell’esercito cinese considerato il più grande della storia antica, superiore anche a quello Romano e a quello di Alessandro Magno che, tuttavia, si associa a un legame particolarissimo del capoluogo campano con la Cina e con le atmosfere esotiche.
Innanzitutto, la storia partenopea è riccamente intessuta di vicende più o meno significative collegate alla presenza di forti comunità straniere, stabilitesi a Napoli per motivi economico-commerciali, fin dalla nascita, cui si sono aggiunte vicissitudini storiche, come le dominazioni saracene, e di costume, legate al diffondersi dell’esotismo, che hanno lasciato significative testimonianze artistiche e intellettuali. Tutte componenti che hanno creato una vera e propria categoria culturale: l’Oriente a Napoli. Inoltre, l’Università degli Studi L’Orientale – che trae le sue origini dal Collegio dei Cinesi, fondato da Matteo Ripa, sacerdote secolare e missionario che dal 1711 al 1723 aveva lavorato, in qualità di pittore e incisore su rame, alla corte dell’Imperatore mancese Kangxi – è la più antica scuola di sinologia e di orientalistica di tutto il continente europeo: il cinese mandarino, scritto e parlato, vi è stato insegnato dalla fine del 1724, mentre l’hindi e l’urdu dal 1878.
E come non ricordare Il Salottino di porcellana della Regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia, oggi nella Reggia di Capodimonte, un ambiente di stile rococò interamente rivestito di lastre di porcellana bianca decorate ad altorilievo con festoni e scenette ispirate al gusto della Cineseria imperante nel XVIII secolo. La Cina evocata nel boudoir di Maria Amalia di Sassonia, infatti, non era quella dei manufatti originali, ma quella della Chinoiserie: l’esotismo da favola trasfigurato dall’immaginazione ben presto dilagato in tutta Europa, come fenomeno di costume delle classi agiate. La porcellana, quale pressoché unico materiale di rivestimento delle pareti, costituiva metafora e paradigma anche del Catai, il Paese dal quale essa proveniva e del quale sembrava riassumere l’essenza estetica e spirituale.
Nel Museo Duca di Martina sito nella Villa Floridiana, invece, sono custodite preziose porcellane facente parte della collezione formata nel corso dell’Ottocento da Placido de Sangro, che aveva acquistato sul mercato antiquario un gran numero di pezzi pregiati provenienti dall’Oriente e giunti in Europa tramite mercanti inglesi e olandesi.
A Napoli la cultura orientale incontra quella occidentale in un magico intreccio, soprattutto quando questa riguarda la Cina. Ogni iniziativa ha un coinvolgimento eccezionale, dal Festival dell’Oriente agli approfondimenti storico-artistici sul tema della mostra, a cura di un’esperta archeologa del MANN, e alla scoperta della tradizionale cerimonia del tè cinese, il gong fu cha, gusti e riti offerti e raccontati dallo staff di Qualcosaditè, una realtà imprenditoriale specializzata nella ricerca sul campo dei tè pregiati, soprattutto provenienti propri dalla Cina, fino all’incontro, previsto per il 7 aprile scorso sugli aquiloni cinesi, seguito dalle esercitazioni di Taijiquan con il professor Cheng Ping.
Come ha sostenuto Edward Said, attorno alle articolazioni tra ciò che si definisce come Oriente e ciò che si definisce come Occidente, ruotano costruzioni dell’immaginario, rappresentazioni simboliche, desideri, configurazioni di potere, teorie e discorsi, e tutto questo prende la forma di temi e miti che vanno a riempire e riarticolare continuamente queste due categorie di percezione dello spazio e della cultura nella dimensione del mondo, fino a farne il luogo in cui risiedeva l’altro, il diverso.
L’Oriente, che nella denominazione tradizionale indica il mondo orientale, ossia le regioni geografiche appartenenti al Vicino, al Medio e all’Estremo Oriente, ha sempre occupato un posto speciale nell’esperienza europea, un capitolo di storia intellettuale che partendo dal XVIII secolo, con radici lontane nel tempo, arriva fino all’oggi. L’orientalismo è, quindi, la conoscenza dell’Oriente insegnata e perfezionata nelle università, mostrata nei musei e utilizzata nelle amministrazioni coloniali, approfondita in studi antropologici, biologici, linguistici, storici e razziali nella letteratura di consumo, ma è anche una categoria dello spirito, si radica in una più generale concezione dell’uomo e della storia, del progresso e dell’identità.
Rappresentando e studiando l’Oriente, integrandolo della civiltà e della cultura europee in senso fisico e immaginario, l’Europa ha potuto meglio definire se stessa per contrapposizione: la sua immagine insieme ai suoi interessi territoriali e politici. Se in passato l’assunto implicito era una distinzione ontologica tra Oriente e Occidente, come due entità contrapposte ma legate dagli interessi occidentali e da un rapporto basato sulla disuguaglianza e sulla discriminazione, oggi è soprattutto un viaggio alla ricerca del proprio inconscio atavico poiché Oriente – ha scritto Tiziano Terziani – vuol dire cultura in quanto ricerca dell’io pensante. Quell’io che sentendosi intrappolato nella malinconia fra due mondi, nel furore del sogno occidentale, e tutta la possibilità che esso contiene, inclusa la sua spaventosa raggiungibilità e, dall’altro lato nel silenzio delle grandi distese a Oriente, che si aprono oltre l’orizzonte verso l’irraggiungibile, annientando ogni altra cosa, sceglie l’enigma, il mistero, come quello dei guerrieri cinesi, e si lascia ammaliare.