«Oggi si parla di quarta mafia, la terza, la quinta, ma la realtà è che la mafia è sempre una, ha una sua continuità; si succedono naturalmente i capi, i personaggi, cambiano sistemi operativi, cambiano gli obiettivi di lucro, ma la mafia è sempre quella»: Cesare Terranova l’aveva capito già nel 1946, quando entrò in magistratura al termine della Seconda Guerra Mondiale, con il virile coraggio e l’infinita speranza che in lui vide Sandro Pertini e che lo definirono fin da subito un uomo buono contro un parassita troppo esteso e troppo radicato.
Come giudice istruttore a Palermo condusse il processo dei 117 e le indagini contro la cosca di Corleone, ripercorrendo le vicende della prima guerra di mafia, il conflitto interno a Cosa Nostra scoppiato nel 1962 che aveva generato a catena decine di omicidi e faide tra la cosca di Salvatore Greco nella zona di Ciaculli e i fratelli La Barbera di Palermo centro. Numerosi mafiosi vennero giudicati nel processo che si tenne a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 e nel processo di Bari, rincorrendo un’idea di giustizia che non trovò degna attuazione nelle 104 assoluzioni per assenza di prove e nelle pene irrisorie dai 4 ai 6 anni. I due processi scoraggiarono la lotta alla malavita, segnando due tra i fallimenti più grandi della magistratura italiana che si dimostrò inadatta a comprendere la gerarchizzazione del sistema criminale. I giudici della Corte d’Assise di Bari non negavano l’esistenza della mafia, sebbene l’equazione tra mafia e associazione a delinquere, su cui hanno insistito gli inquirenti e si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale. L’impianto accusatorio fu demolito con motivazioni che fecero scuola nella storia dei processi alle mafie per l’impossibilità di riconoscere un’associazione a delinquere e, dunque, attribuire le giuste condanne.
Cesare Terranova, deputato per due legislature ed eletto come indipendente nelle liste del Partito Comunista, fu tra i primi a denunciare l’esistenza di santuari inviolabili del potere mafioso tanto da essere riconosciuto come il magistrato e politico che aveva scoperto la mafia, riconoscendo la crepa della corruzione sociale e le sue conseguenze. L’unica arma vincente, come dimostrò nei suoi giudizi e nella forte coerenza morale, era per lui l’annullamento del divario tra teoria e prassi, il passaggio da un’eguaglianza meramente formale – abbandonata tra i paragrafi polverosi di qualche legge – e un’eguaglianza effettiva con la promozione del senso civico attraverso scelte quotidianamente oneste e corrette. Fu Terranova a dichiarare: «La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o famiglie o meglio ancora cosche». In tempi precoci il magistrato fu il primo a individuare il forte legame tra mafia e politica e diffuse l’idea di mafia come sistema, da riconoscere necessariamente con leggi adeguate, polizia efficiente, giudici sereni. Terranova visse in un momento storico in cui ogni riflessione sul fenomeno sociale della corruzione mafiosa era in via di definizione e con la sua eredità segnò personalmente l’analisi di una costante metamorfosi sociale e le modalità di indagine a disposizione della magistratura.
E se la storia insegna, la Corte d’Assise di Roma una lezione l’ha compresa. Combaciano con tragica ironia due date della storia mafiosa d’Italia: la dolorosa sconfitta umana dell’assassinio di Cesare Terranova (25 settembre 1979) e una vittoria per la magistratura che ha finalmente riconosciuto il clan di Ostia come un’associazione per delinquere di stampo mafioso (24-25 settembre 2019). La mafia uccide anche d’autunno, ma non sempre ne esce illesa. Il processo al clan Spada ha finalmente raccolto l’insegnamento del magistrato siciliano sulla necessità di definire, delineare con netti confini un fenomeno non sporadico ma sistematico, con un’architettura ben precisa e fissa.
Lo spostamento spazio-temporale dalla Sicilia a Ostia e dagli anni Settanta al 2019 determina indubbiamente una situazione socio-politica diversa, ma rivela moduli ripetuti nello spazio e nel tempo. «Esiste la mafia che è associazione delinquenziale, in primis da riconoscere come tale», aveva dichiarato Terranova nel processo dei 117, con un’intuizione avanti sui tempi e straordinariamente vera. Solo nel 2019 il clan Spada è stato riconosciuto come mafia, più di 76 mesi dopo le ripetute minacce alla giornalista Federica Angeli, «Se scrivi, ti sparo alla testa», nel tentativo di dissuadere la giornalista a raccontare il clan come tale e non come un insieme di personaggi sciolti della malavita.
La sentenza riconosce per la prima volta l’associazione a delinquere per la potente famiglia sinti del litorale romano, dopo più di 9 ore di Camera di consiglio. La Corte ha confermato i capi d’accusa dell’inchiesta partita con la maxi-operazione denominata Eclissi del 25 gennaio 2018, che portò a oltre 30 arresti per estorsione, omicidio, crimini contro la persona, traffico di stupefacenti. Il processo si è concluso con 7 assoluzioni e 17 condanne. I principali esponenti del clan sono stati condannati all’ergastolo: Carmine, detto Romoletto, Roberto e Ottavio, detto Marco, Spada. Secondo la sentenza, il clan si è appropriato negli ultimi anni di una porzione di città, determinando un mutamento del volto urbanistico di Ostia. Terranova stesso, circa 50 anni fa, riconobbe nella vocazione imprenditoriale uno dei tratti più significativi della proliferazione mafiosa con il dilagare di azioni gravi e lesive sul territorio e sui beni primari. Conosceva la forza delle cosche, aveva assistito alla loro evoluzione individuando l’organizzazione a base familistica e la ripartizione dei ruoli. Le medesime caratteristiche imputate al clan Spada nel processo tenutosi nell’aula bunker di Rebibbia. «La condanna appena pronunciata dalla Corte d’Assise di Roma – hanno dichiarato i parlamentari del M5s nella Commissione Antimafia – permette di iniziare a dare un nome ben preciso a chi mette quotidianamente in pericolo i cittadini».
Riconoscere è, così, il mezzo per comprendere e condannare. E ricordare è il primo passo per poter riconoscere. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel 40° anniversario dell’assassinio di Terranova, lo ricorda in una lettera al Sindaco di Petralia Sottana, Leonardo Iuri Neglia: Era un magistrato rigoroso e preparato, profondo conoscitore della realtà siciliana. Cesare Terranova seppe cogliere la forza e pervasività della mafia, qualificandola per primo come associazione delinquenziale dalle variegate forme. […] Comprese la trasformazione in atto della mafia, infiltrata nella vita pubblica ed economica e ben sorretta dal pilastro inossidabile dell’omertà. A lui si deve l’avvio di indagini coraggiose e di processi inediti. Terranova fu ucciso perché per primo intuì la metamorfosi di una mafia che a cavallo degli anni Ottanta stava cambiando pelle, trasformandosi da fenomeno rurale a pervasiva presenza criminale nell’imprenditoria e politica. A oggi, con il processo Spada, vince lo Stato che sa raccogliere il coraggio e l’eredità di chi ha agito prima di lui.
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