Stati Uniti d’America, 1945. Siamo in piena estate, il sole è appena sorto sulle piane del deserto del Chihuahua. Ha da poco smesso di piovere. La Seconda Guerra Mondiale arranca verso la conclusione, ma quel che rimane delle forze dell’Asse rifiuta la resa. Nella base militare di Alamagordo, in New Mexico, fervono i preparativi per un test che cambierà le sorti del mondo per sempre. Esattamente alle 5:30 del mattino del 16 luglio gli scienziati del misterioso Progetto Manhattan, guidati dal fisico teorico J. Robert Oppenheimer, detoneranno con successo il primo ordigno nucleare della storia. Il test prende il nome di Trinity, da un sonetto di John Donne che recita profetico: Ma perché io sorga e regga, tu rovesciami e tendi la tua forza a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. L’esplosione della bomba è così violenta da polverizzare la torre sulla quale è stata posizionata e trasformare l’asfalto circostante in sabbia verdastra. Le immagini che riprendono l’enorme nube tossica a forma di fungo segnano l’inizio dell’era atomica.
Da allora e per un periodo piuttosto lungo, il nucleare ha significato insieme grande pericolo e grande prosperità. Abbiamo creduto di essere riusciti, una volta e per sempre, a imbrigliare la natura, a piegare al nostro servizio persino la sua manifestazione più infinitesimale: l’atomo. Si è trattato di una sorta di nuova scoperta del fuoco, un punto di non ritorno scientifico e tecnologico inciso nella storia con il bombardamento drammatico di Hiroshima e Nagasaki. L’alba dell’era atomica, però, ha segnato anche lo spostamento dell’asse del potere dal continente europeo verso Russia e Stati Uniti. Negli anni Cinquanta, il boom della ripresa economica venne oscurato dall’ombra della Guerra Fredda, che alimentò la corsa all’energia e agli armamenti atomici. Ancora oggi, la minaccia di una guerra nucleare è ben presente nel nostro immaginario culturale: l’apocalisse atomica è un tema particolarmente caro alla letteratura distopica, ai fumetti, ai videogame e al cinema.
Solamente nel 2019 sono stati rimandati a scenari nucleari (gloriosi o disastrosi) l’acclamata miniserie su Chernobyl, il nuovo capitolo della saga video-ludica Fallout e la serie tv tratta dal fumetto cult Watchmen. Il fatto che, tra i prodotti d’intrattenimento citati, Chernobyl sia l’unico calato in un contesto reale, l’unico che documenti i veri effetti devastanti di un incidente atomico sull’ambiente e sulla salute delle persone, è particolarmente significativo. L’aspetto che troviamo più stimolante dell’intera faccenda, dunque, sembra essere la speculazione: cosa succederebbe se la guerra nucleare scoppiasse, alla fine, in un punto imprecisato del futuro, come conseguenza al prosciugamento delle risorse di uranio e petrolio (Fallout)? Cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero potuto contare su uno übermensch atomico come il Dottor Manhattan durante la guerra del Vietnam (Watchmen)? Ogni possibile scenario viene, in queste opere, scandagliato e spinto fino all’inevitabile epilogo. L’altro elemento significativo è che le storie ambientate negli Stati Uniti e ispirate all’era atomica sono quasi esclusivamente opere di fiction, futuristiche, che pongono l’accento sulle conseguenze di un eventuale conflitto. In nessuna delle visioni scaturite, invece, fanno la loro comparsa sulla scena i corpi, le vite e le storie di coloro che, a partire dagli anni Quaranta, sono nati, vissuti e morti entro i confini dei siti d’estrazione di uranio e plutonio, delle discariche di rifiuti radioattivi, nel raggio dei test nucleari condotti dalle basi governative top secret nel deserto o subendo gli effetti delle piogge radioattive tanto da guadagnarsi l’appellativo di downwinders, quelli che vivono sottovento.
A tal proposito, la storia per lo più taciuta, e che invece vale la pena raccontare, è quella dei Nativi Americani il cui territorio è stato profanato dalla presenza delle miniere di uranio, il dramma delle tribù decimate dal cancro e private dei propri luoghi sacri: uno di questi è il famigerato sito di Yucca Mountain, preposto allo stoccaggio degli scarti tossici e radioattivi dell’industria nucleare. È una storia che mostra l’altro volto dell’era atomica dietro il quale si celano interessi economici e politici che vanno salvaguardati a ogni costo, che schiaccia e abusa surrettiziamente intere popolazioni già in passato oppresse e private del diritto a una qualità della vita accettabile, relegate nel deserto inospitale per poi accorgersi, solo dopo, che i grossi giacimenti di uranio erano lì. È una storia che scopre la carne viva di un sistema che valuta tutto, anche gli ecosistemi che andrebbero protetti, secondo il criterio della produttività: lo stesso che oggi ci vede alle prese con un’emergenza climatica senza precedenti e che ha messo in ginocchio il pianeta.
Nel 1997, Valerie L. Kuletz documentò la vicenda nella sua tesi di dottorato, poi pubblicata con il titolo The Tainted Desert, il deserto contaminato. Le morti di Nativi Americani dovute all’industria nucleare vennero chiaramente definite, all’interno del libro, un olocausto segreto. Il lavoro della studiosa si concentrò principalmente sul ricostruire una geografia nucleare delle aree desertiche presenti tra Utah, New Mexico e Colorado, attraverso le quali mappare l’estensione e la portata del disastro ambientale. Per farlo, si affidò alle testimonianze agghiaccianti delle popolazioni di Indiani presenti sul territorio. Nel villaggio di Paguate, a ovest di Albuquerque, dove si trovava la più grande miniera d’uranio degli Stati Uniti, ad esempio, la signora Dorothy Purley raccontò della sua lotta contro il cancro e del suo impegno per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo al tema dell’avvelenamento da radiazioni che affliggeva il suo popolo: «Le persone devono sapere che c’è qualcosa che non va, devono vederlo. Forse in questo modo la nostra gente capirà cosa succede a Paguate, nella riserva dei Laguna». Sul suo collo, era ben visibile la tiroide ingrossata dalla malattia.
Eletta rappresentante della tribù dei Laguna Pueblo in New Mexico, Purley parlò pubblicamente del rapporto tra Nativi Americani e industria nucleare statunitense all’Appello de L’Aja per la Pace del 1999: «Quando la miniera fu inaugurata nel 1935 fu una vera e propria manna dal cielo per il mio povero popolo. Abbiamo sempre vissuto in povertà, che pare essere un requisito standard del governo per i Nativi Americani. Il denaro che se ne ricavava ci permetteva di sfamare le nostre famiglie e di essere, per la prima volta, indipendenti. Sì, erano bei tempi. Peccato che il governo dimenticò di dirci che l’uranio era pericoloso e sarebbe divenuto nocivo per la nostra salute. Non ci dissero neppure che avrebbe portato morte e distruzione anche ad altri».
A essere pericoloso, però, non era solo l’uranio: tutte le operazioni di estrazione e trasporto del minerale all’interno della riserva venivano gestite in maniera sciatta, disattenta: «Il nostro villaggio (Paguate) era ad appena 300 metri dalla miniera. Riuscivamo a sentire l’odore dello zolfo e delle altre miscele che venivano usate negli esplosivi per l’estrazione. Di solito conducevano le operazioni all’ora dei pasti, quando le donne del nostro villaggio mettevano a essiccare i frutti e le verdure all’esterno nella stagione del raccolto… Uno strato sottile di polvere ricopriva il nostro cibo, ma noi lo ripulivamo e basta perché non sapevamo che era tossico. […] Nel 1975 cominciai a lavorare per la miniera Anaconda Uranium. Ero una madre single e dovevo provvedere a mia figlia. Fui impiegata come guidatore di camion e raccoglievo l’uranio grezzo per portarlo alla raffinazione. Venivo esposta a una grande quantità di radiazioni e non lo sapevo, all’epoca. Mangiavamo il pranzo seduti su grossi blocchi di uranio. Non fummo mai informati di alcuna procedura di sicurezza, né ci fu fornito l’equipaggiamento di sicurezza».
Con il tempo, l’impatto dell’avvelenamento da radiazioni sulla popolazione di Paguate raggiunse livelli disastrosi: tutta la famiglia di Dorothy si ammalò. Seppellì, a causa del cancro, la madre, il fratello, gli zii. Suo genero fu colpito da una rarissima forma di tumore alla pelle. Le malformazioni alla nascita erano sempre più frequenti nelle nuove generazioni, aumentarono i casi di tumore della tiroide e della prostata in ragazzi poco più che adolescenti. Dopo aver sostenuto cure a base di chemioterapici per sei anni, Dorothy Purley morì ad appena sette mesi dal suo discorso di sensibilizzazione.
Sono passati vent’anni da allora, eppure la minaccia radioattiva non ha smesso di mietere vittime: decenni di estrazione e lavorazione scellerata dell’uranio e del plutonio sui territori dei Nativi Americani, nonché dello stoccaggio di scarti di lavorazione e rifiuti tossici nella stessa area, hanno portato all’inquinamento delle acque nelle quali si dissetano gli animali e nuotano i pesci di cui si nutrono i Laguna Pueblo e i Western Shoshone. Negli anni Cinquanta, nella zona desertica tra Utah, New Mexico, Nevada e Arizona vennero condotti più di cento test nucleari atmosferici. La pioggia radioattiva cadeva sulle piante e sulla vegetazione consumata dagli abitanti della zona. Vietati nel 1963 grazie alla mobilitazione della comunità scientifica, i test furono, negli anni Novanta, causa scatenante di cancro per i nipoti delle persone che li avevano sperimentati sulla propria pelle.
Ancora oggi, si fatica a dare rilevanza scientifica alle testimonianze come quella di Dorothy Purley e di tantissimi altri come lei. Deb Abrahamson, ad esempio, non è una Laguna Pueblo, ma un’attivista della tribù Spokane che vive nello stato di Washington. Ha un tumore all’utero talmente grosso da occupare tutto lo spazio che va dall’anca destra all’anca sinistra. La storia di Deb ha molti punti in comune con quella di Dorothy: la miniera che ha segnato le sorti della sua comunità portava un nome diverso, ma gli Spokane di Wellpinit accolsero con lo stesso entusiasmo l’era atomica, attribuendo alla produzione di uranio e plutonio la possibilità di emanciparsi economicamente, di lavorare e guadagnare denaro per garantire una vita migliore alle proprie famiglie. Molti erano addirittura convinti che i minerali d’uranio fossero di buon auspicio e li conservavano a mo’ di amuleti sotto i propri letti. Una donna anziana custodiva gelosamente un cristallo lungo 15 centimetri. Morì di cancro alla cervice. I minatori non vennero formati sulle misure di sicurezza: tornavano a casa con gli abiti sporchi di polvere radioattiva, esponendo i familiari al rischio di contaminarsi.
In un’intervista rilasciata all’inizio di dicembre 2019, Deb Abrahamson ha ribadito l’importanza di portare la sanità e l’Environmental Protection Agency a intervenire sulla questione. Tuttavia, mancano tuttora studi epidemiologici che esaminino e accertino l’incidenza dell’avvelenamento da radiazioni nella comparsa di malattie come il cancro tra le persone che abitano queste zone. Fino ad allora, sarà impossibile conoscere con precisione l’impatto che hanno avuto l’estrazione, la raffinazione e lo stoccaggio dell’uranio sulle riserve dei Nativi Americani. L’era atomica ha ancora tanto di cui rispondere.