Due uomini sui cinquanta, delle cartelline in mano e lo smarrimento negli occhi.
«Buongiorno, chi cercate?»
«Buongiorno, siamo dell’azienda *** di ***. Ci hanno detto di venire qui».
«Non vi hanno dato nessun nominativo?»
«No».
Fa un respiro, prende coraggio e caccia tutto d’un fiato, il tono alto e sbrigativo di chi deve togliersi un peso: «Insomma, dobbiamo firmare il licenziamento, questo è tutto!».
La forzata spavalderia lo teneva insieme. Ma le sopracciglia tremavano, gli occhi tremavano, tremava la bocca sotto la mascherina, tremava dello stesso fremito che ha mandato in frantumi tutta una vita di lavoro, aspettative, speranze.
Io, italiana, classe ’96, sono cresciuta vedendo genitori e figli contendersi il titolo di chi è più in difficoltà. Ho 25 anni e appartengo alla generazione che ha perso il diritto di sognare. È questo, almeno, quello che continuano a ripeterci con il precariato, gli stage gratuiti tanto è formazione. Anche se lavori dieci ore al giorno senza essere affiancato da nessuno e, spesso, senza retribuzione: è formazione, ringrazia e vai avanti… fino al prossimo stage. Perché, in Italia, stando ai dati pre-Covid, solo il 12% degli stagisti riceve un contratto nella stessa azienda al termine del periodo di tirocinio.
E tu cosa fai, Lettere? Allora è colpa tua: non lo sai che le lettere sono inutili? Come la filosofia, l’arte. Quando cercherai un lavoro vero? Fai l’ingegnere, piuttosto, l’economista. Non hai capito che siamo nella società dell’utile? La cultura è per chi non ha voglia di fare niente.
Pazza Agnes Heller, che, come filosofa, insegnerebbe ai ragazzi prima di tutto solo cose inutili, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita, così all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose. Pazza, perché è alle piccole cose che guarda la società dell’utile. Ma utile a che, a chi? Alla felicità, al benessere? Strano allora che la depressione sia il disturbo mentale più diffuso in Italia secondo i dati ISTAT 2018, precedenti al lockdown. Non c’è abbastanza utile, dirà qualcuno…
Siamo noi la generazione fallita, ci ripetiamo e ci ripetono. Come se il problema fosse di una generazione e non di una società intera, di un Paese in affanno, di una politica che non funziona. Ci perdiamo in frivole faide per vincere la gara del chi sta peggio: i giovani che studiano per la disoccupazione, i cinquantenni che sperano di invecchiare in fretta per arrivare almeno alla pensione sociale. Ognuno, chiuso nei suoi drammi, non si accorge che il problema non è lui: non sono i suoi anni, l’esperienza acquisita, le competenze che non ha. Non è questione di skills.
Il problema non è dei ragazzi che non riescono a laurearsi in tempo, ma di un sistema che li costringe a lavorare dodici ore al giorno a 900 euro per mantenersi gli studi. Il problema non è di chi non arriva al 110 e lode, ma di un’università del tutto scollegata dal tessuto lavorativo. E ve lo dice una laureata in tempo, 110 e lode. Non basta. In un mercato lavorativo saturo, spesso poco meritocratico, l’impegno da solo non basta. Vince il fattore C: fortuna di essere nati nel contesto giusto, di avere i fondi per comprarsi il lavoro con titoli spesso vuoti. Fortuna di conoscere i giusti nomi.
Non è così ovunque. Ricordiamocelo, quando sentiamo di aver fallito: chi cade, spesso, ha solo avuto la sfortuna di essere stato spinto. Non è così ovunque, ma ovunque dilaga il malcontento, la difficoltà di inserirsi e sentirsi davvero accettati in quella che quasi vent’anni fa gli psicanalisti Miguel Benasayag e Gerard Schmit già chiamavano l’epoca delle passioni tristi. Ognuno chiuso nella propria solitudine, illuso che basti mostrare spezzoni di quotidianità a quante più persone possibili per condividere la vita, valere qualcosa. Persi nel bisogno di sentirci parte, continuiamo a isolarci.
Ci dispiace, non siamo qui per offrire facili rimedi. Ma una consolazione sì, da una voce molto più autorevole della nostra in campo di psicologia e disagio sociale. Ancora Benasayag e Schmit avvertono che il fatto di vivere con un sentimento (quasi) permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi produce conflitti e sofferenze psicologiche, ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologica.
Che vuol dire? Che siamo tutti più o meno disturbati, in una società disturbata. L’Occidente ha peccato di hubris. Ha scommesso tutto sulla tecnica per accorgersi che la tecnica non può tutto, che forse la fretta di progredire ci ha fatto lasciare indietro qualcosa. Magari proprio l’inutile, ciò che non dà profitto e non muove l’economia, ma i pensieri sì. Ciò che non dà risposte immediate, ma milioni di domande a cui non c’è risposta che sia una e sola. Domande che turbano e per questo spingono alla ricerca. Grave, pericoloso. La ricerca non fa bene all’homo oeconomicus: rallenta la produzione, mette in crisi il sistema. Instilla il dubbio che all’umano possa servire altro oltre la merce: mina la fede nel profitto economico.
E l’economia è sacra, stabilisce la legge. Superfluo che per applicarla si arrivi a umiliare l’uomo. Sovversivo chi non si piega. Allora sì che i problemi servono: per offrire soluzioni che fanno bene solo a qualcuno. Perché se un padre di famiglia ha un fitto da pagare e figli da mantenere, non può permettersi il lusso di rifiutare condizioni di schiavitù spacciate per lavoro. Una madre, nella stessa condizione, non può rifiutare uno stipendio inferiore a quello di un uomo. Tanto, se rifiuto c’è la fila. Facile, da fuori, pensare di tirarsi indietro.
Quello dello sfruttamento è un sistema che si autoalimenta. Aveva ragione Maslow, con la sua piramide dei bisogni: se non si soddisfano innanzitutto necessità fisiologiche e di sicurezza, l’essere umano non può progredire verso esigenze più alte, di appartenenza, stima, autorealizzazione. All’epoca delle passioni tristi non conviene che si alzi la testa. È meglio offrire oppiacei, non sia mai che domande di troppo facciano saltare qualche ingranaggio.