La Solfatara, vulcano dei Campi Flegrei a Napoli, non è soltanto un antico cratere ancora attivo e in stato quiescente, ma anche un luogo dalla storia che affonda le sue radici in un passato lontano e che, tutt’oggi, non si può dimenticare. Del resto, Napoli è una città dove sacro e profano si fondono per dare vita a racconti incredibili nati da miti, da rituali magici e religiosi e da una tradizione orale tramandata di generazione in generazione. Queste storie hanno raggiunto i giorni nostri e, in qualche modo, non invecchiano mai perché nonostante il tempo che passa portano comunque con sé le tracce di ciò che è stato, dei costumi che si sono evoluti con il passare dei secoli, le dominazioni che si sono susseguite. Ogni volta che lo si condivide con qualcuno, il racconto acquisisce una voce tutta nuova.
La Solfatara era già nota in epoca imperiale romana. Nel suo Strabonis geographica, la più antica testimonianza scritta giunta fino a noi, Strabone la definisce come dimora del Dio Vulcano, Forum Vulcani, un vero e proprio ingresso per gli inferi. Anche Plinio il Vecchio ne ha parlato, definendo la Solfatara quale Fonte Leucogei riferendosi alle acque biancastre e alluminose che vi sgorgano.
A partire dal 1900, inoltre, la Solfatara ha aperto ufficialmente al pubblico con visite guidate all’interno del cratere e, in quanto oasi naturalistica, ha dato la possibilità di passeggiare non soltanto in presenza di fumarole, monete e vulcanetti di fango, ma anche di zone boschive e di macchia mediterranea. Tali escursioni erano, ai tempi del Grand Tour, una delle tappe da non perdere per nessun motivo.
Ma questo luogo secolare, dicevamo, ha una tradizione antica. Le favole, così come i racconti, hanno dei protagonisti ai quali non venivano assegnati nomi. Uno dei personaggi più celebri, ad esempio, è l’orco partenopeo che, come scrive Angela Matassa nel suo Leggende e racconti popolari di Napoli, pur se caratterizzato da connotazioni antropofagiche, ha spesso aspetti positivi, materni o addirittura oracolari. Mostruoso nell’aspetto, ha un animo buono e generoso. […] L’Orca è solitamente un personaggio negativo, ma spesso è soltanto la moglie dell’Orco e non ha un ruolo importante.
Eppure vi è una leggenda, un mito urbano dal titolo Sora Zolfatara di Nicolò Lombardo, presente nel suo La Ciucceide del 1724, che racconta una storia – tradotta dalla stessa Angela Matassa – riguardante il Vesuvio, personificato appunto come un orco, ma anche sua sorella, la Solfatara. Parole, che qui riportiamo, che dipingono Napoli, l’ardente terra flegrea e il fuoco che si porta dentro.
Sora Zolfatara
Sacciate addonca, ch’into a sta montagna,
addò nuie trasarrimmo, nce sta n’Uorco.
Chisto no’ scenne maie pe sta campagna,
ma sta sempre lla’ nchiuso, comm’a ppuorco.
E che magna llà dinto? Che nce magna?
magna prete, schefienze. Comm’è spuorco!
Magna oro, magna chiummo, magn’argiento.
Se chiamma lo Vesuvio e ha na sore,
ch’è ppur’Orca e se chiama Zolfatara,
che sta poco descuosto, e n’ascjeno fore
tutte duje ‘a no ventre; è cosa rara,
commo so’ tutte de no stisso ammore.
Si chella stace allegra, se reschiara
la faccia de chist’auto; ma si chisso
se ‘nforza, chella ‘ncigna e ffà l’aggrisso.
Si chisto mo peppeia, e chella fumma;
si chella ha famme, e chisto have l’abbramma.
Veve chisto? e chell’auta fa la ‘mbumma.
Chella cammina, e chisto àauza la gamma.
Chella sta co na faccia de maumma?
E chisto abbotta e te fa chiammà mamma.
‘Nzomma, si chella ride, e chisto ride;
si chisto chiagne, chianere la vide.
Na cosa schitto ha chisto che n’ha chella:
e pprevne ca chisto è ccorporente,
e chella accanto a chisto è n’alecella.
Chisto fa cierte cose cchiù fetiente,
perché ssòle paté de cacarella;
e cquarche bota vòmmeca pé niente;
e cquando lo bbo fa, pe anzi a la vocca
saglie pe sta montagna e te l’abbrocca.