«Quando avevo otto anni decisi cosa avrei fatto per il resto della mia vita: scrivere. Ma non avevo lo strumento giusto per farlo. La mano che avevo sin dalla nascita era più adatta a costruire orologi, diciamo così. Allora presi la vanga di mio padre e me ne andai in giro per il mondo a dissotterrare gli scheletri degli scrittori. Scelsi cinque scrittori per prendere da loro cinque ossa in particolare. L’indice di Shakespeare, così avrei sempre avuto un po’ di arguzia. Il pollice di Poe, perché volevo imparare come si tiene un badile per seppellire i miei cadaveri. L’anulare di Mary Shelley, perché sposò divinamente le sue parole alla memoria. Il mignolo di Emily Dickinson per un briciolo di poesia, e il medio di Shirley Jackson per avere la giusta dose di veleno da aggiungere ai miei castelli e alle mie tazze. […] Ho incollato le loro ossa alle mie e ho ricucito la pelle. Perciò, vede, lo scrittore non sono veramente io, ma la mia mano».
Non avevo colpevolmente mai letto nulla di Tiffany McDaniel. Poi è arrivata L’eclisse di Laken Cottle (Blu Atlantide) e mi ha trascinato nel suo intenso buio. Laken Cottle è uno scrittore, un inventore di storie talmente abile da esserne il primo e più convinto fruitore. Il racconto oscilla fra il fantastico e il catastrofico, fra fiaba e orrore, drammatico e simbolico, celeste e terreno. Per certi versi, McDaniel ricorda Neil Gaiman, le atmosfere eerie (soprannaturali, istintivamente avvertite come fuori posto, inquietanti) oscure e immortali che, più che dalla penna di un uomo, sembrano sgorgare dal canto di un membro del popolo fatato che fruscia fra i rami di un bosco.
Nel romanzo fantasy Stardust (1999), Gaiman raccontava le gesta del giovane Tristan Thorn, partito alla volta di Faerie alla ricerca di una stella caduta che poi si rivelerà essere una giovane donna. Anche ne L’eclisse di Laken Cottle le stelle giocano un ruolo fondamentale: si dice che Heaven, la madre del protagonista, sia infatti una stella venuta dal cielo e al cielo tornata quando lui era ancora un bambino. Heaven è un nome che, d’altro canto, sottolinea la distanza della donna dalle cose terrene. Di lei non ci sono foto, ma solo un ritratto a penna fattole dal marito. Quando il figlio abbandona Laken con suo padre, della donna si perdono fisicamente le tracce, ma l’impronta a forma di stella che marchia a fuoco sull’orecchio del bambino resta come scia indelebile del suo passaggio, il segno della predestinazione di lui a vivere una vita sospesa.
McDaniel ambienta il suo romanzo nel punto di incontro tra cielo e terra, lo spazio nebuloso abitato dalle streghe guerriere e attraversato da aerei zeppi di fantasmi. Ciò accentua l’impalpabilità e la mutevolezza della trama, l’impossibilità di afferrare un senso che, pure, avvertiamo di rincorrere ossessivamente insieme a Laken per tutta la durata della lettura. Si ha, così, l’impressione di girarsi e rigirarsi in un sonno ipnotico e agitato, di essere spettatori di quel frangente esatto in cui un sogno si trasforma, con pochi, piccoli e decisivi dettagli, in incubo ricorrente. E Laken sogna ma è anche artefice del sogno.
In questo ricorda forse l’opera più illustre di Neil Gaiman, Sandman, che racconta di Morfeo, l’Eterno che regna sulle terre del Sogno, rapito durante un rituale di magia nera dagli umani che volevano imbottigliare la morte (ad agosto, uscirà anche la serie dedicata su Netflix). Ovviamente, Morfeo è una divinità mentre Laken è semplicemente un uomo. Un uomo capace, tuttavia, di modificare e piegare il ricordo alla volontà del proprio racconto, alla sua capacità di affabulare e affabularsi.
Quella dello scrittore è una pelle che Cottle indossa con sacrificio perché passa attraverso il tramutarsi della sua natura, l’infliggersi il dolore fisico di innestare, sulla propria mano, le ossa di un altro. La prima mistificazione, dunque, che precede addirittura la finzione del sogno, è quella insita nel ruolo di autore, nella maschera di burattinaio. Le due maschere del protagonista si compenetrano, di fatto, nel racconto simultaneo di due diverse storie. La prima è la riproposizione parola per parola, lettera per lettera, del racconto di Sci-fi pubblicato da Cottle adulto sulla rivista The North Star dal titolo L’eclissi di un uomo. La seconda è il viaggio incredibile di Laken attraverso mondi onirici per far ritorno a casa.
Emblematicamente, la rivista prende il nome dalla stella polare, la più luminosa del cielo e anche quella più “fissa”. Guardandola è possibile orientarsi verso nord, usarla come bussola per ritrovare la via quando tutti gli altri tentativi sono falliti. Una speranza luminosa nel cielo nero. Nella storia scritta da Laken, però, l’eclisse comincia a inghiottire tutto proprio cominciando dal Polo Nord. Ogni speranza sembra, così, perduta. McDaniel riesce, alternando i due racconti, a rendere il primo (dichiaratamente di fantasia) più plausibile del secondo, fondato, invece, sull’esperienza diretta del protagonista. L’avanzare dell’eclisse, così, corrisponde alla sensazione del lettore di agitarsi nel buio, di brancolare a tentoni tra spezzoni di storie, di vite, di fantasie che non possono essere reali. Cancellando il suo unico punto di riferimento nel cielo, poi, il Laken scrittore condanna il sé viandante a essere per sempre smarrito, perché ha eliminato dalla mappa proprio il posto che cercava di raggiungere.
In L’eclisse di un uomo, una mano aliena e buia si allunga sulla Terra, ghermendo ogni cosa e lasciando dietro di sé solo una densa massa di oscurità. Il portato apocalittico di questo buio famelico che avanza compiendo la fine del mondo ricorda la fatalità dei discorsi sul cambiamento climatico. Le persone, pochi attimi prima di svanire nella notte eterna (nella voragine del buco nero o del grande Nulla temuto dagli abitanti del magico popolo de La storia infinita di Michael Ende), si domandano in preda all’angoscia per ciò che hanno perso cosa avrebbero potuto fare per evitarlo. È un sentimento ben evidenziato anche dal film Don’t Look Up con Leonardo Di Caprio in cui, di fronte all’inesorabile apocalisse, vengono offerte soluzioni inadeguate e poco concrete, oppure ci si abbandona increduli all’idea di un complotto fomentato dall’alto. Lo snodo, qui, è che l’inevitabilità della catastrofe rivela a noi stessi come veramente siamo: deboli, avidi, impotenti, sofferenti. Laken Cottle profetizza la fine del mondo perché per lui l’eclisse è già avvenuta. Il buio lo ha già inghiottito, la sua vista si è abituata all’oscurità e ne ha saggiato le profondità: è il bardo in grado di muoversi in mezzo ai ciechi.
L’eclisse è qualcosa che impedisce di guardare, offusca, nasconde, aiuta a dimenticare. Moltissimi dei personaggi in cui Laken si imbatte non possono contare sulla propria vista, oppure fingono di non vedere. Questa scelta ha un forte valore profetico, nel romanzo, ma anche un’implicazione immediata: la scelta di fingere, di ingannare i sensi e la coscienza, fino a che punto ci mette in salvo dalle nostre responsabilità individuali e dal nostro collettivo destino di specie corrotta e disperata? Laken affonda nel buio perché finire soffocato dall’ombra sarebbe una sorte migliore dell’emersione del ricordo che lo tormenta. Le storie inventate con l’aiuto di Shakespeare, di Poe, di Jackson, di Shelley (e che di questi mentori conservano il portato epico, la morbosità, la velenosità, l’ibridismo) si frappongono fra Laken e il suo dolore.
Ancora una volta ci sarebbe da interrogarsi sulla letteratura, sulla capacità umana di raccontare storie che offrano una via di fuga e l’ossigeno a un’anima agonizzante nella tenebra del quotidiano orrore. McDaniel, qui, non offre speranza. Il buio imperversa fuori e dentro e, quando un ostinato raggio di luce lo rischiara, quello che mostra è talmente tremendo da indurre ad anelare ancora di smarrirsi nell’eclisse.