Vite schiacciate su vite schiacciate, morti su morti, uomini e donne che non sono altro che pedine di una scacchiera manovrata da chi non ha a cuore la loro sorte. Quella dei morti sul lavoro è una conta terribile: già quasi 600 dall’inizio dell’anno, e a questi bisogna aggiungere tutti coloro che sono rimasti gravemente feriti.
L’attenzione sul tema è stata riportata di recente anche dal Presidente Mattarella: «I morti di queste settimane ci dicono che quello che stiamo facendo non è abbastanza. Lavorare non è morire».
Basti pensare che negli ultimi sette giorni, in sole quarantotto ore, ci sono stati dodici morti, dodici uomini e donne che sono usciti di casa per andare a lavorare e non vi hanno più fatto ritorno. Le dinamiche sono sempre le stesse: operai precipitati da impalcature, schiacciati da tir, finiti in cisterne o feriti nei più disparati modi. Dinamiche che si ripetono da anni e che hanno due comuni denominatori: da un lato il mancato rispetto delle norme anche più basilari sulla sicurezza, dall’altro il disinteresse totale dei rappresentanti politici e di chi quelle morti potrebbe evitarle. È proprio per questo che le parole di Mattarella sono sì significative, ma ci sembrano anche le solite enunciazioni di principio che non si risolvono in un nulla di fatto.
La maggior parte di quelle morti poteva essere evitata: basti pensare ai cinque operai di Brandizzo travolti da un treno perché erano a lavoro mentre la circolazione non era ancora conclusa. O a Luana D’Orazio che si sarebbe potuta salvare se solo quel macchinario che stava usando avesse avuto il sistema di sicurezza di cui necessitava. E a centinaia di altre vite stroncate, vittime del profitto a tutti i costi, e nel minor tempo possibile.
Il rispetto delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro comporta sicuramente tempi di esecuzione più lunghi e controlli più frequenti e forse questi agli occhi degli imprenditori appaiono come un dispendio inutile di risorse, anche perché a pagarne le conseguenze sono quasi sempre gli operai le cui vite scorrono nel disinteresse collettivo, in primis della politica.
I nostri governi – sarebbe ingiusto parlare al singolare perché l’indifferenza per chi lavora è forse una delle caratteristiche di tutti gli esecutivi più recenti – hanno tutelato in questi anni i soli interessi degli imprenditori, descritti come benefattori che fanno agli altri il dono del lavoro. Salvo poi, si intende, battersi il petto e versare lacrime da coccodrillo quando accadono simili tragedie che non sono frutto però del caso, ma di precise condizioni che loro stessi hanno contribuito a creare e avallare.
È ben visibile che il governo utilizzi due pesi e due misure quando si tratta di imprenditori, nei confronti dei quali non si dimostra così severo e repressivo così come lo è in innumerevoli altri campi: basti pensare che mentre cancellava il reddito di cittadinanza, negando anche i più basilari diritti ai più poveri, riconosceva un cospicuo condono fiscale ai grandi evasori.
Le vite e la dignità di chi ogni giorno lavora, e con fatica cerca di rimanere in piedi, vengono continuamente calpestate e così, dopo pochi minuti di notizia, ci si dimenticherà addirittura che ci siano mai state. Tanto qualcuno prenderà il loro posto e sarà a sua volta sfruttato, sottopagato, umiliato.
A ciò si aggiunga che le norme attualmente in vigore sul tema difficilmente rappresentano un deterrente per imprenditori senza scrupoli, che sanno che nella maggior parte dei casi non verranno scoperti perché i controlli sono minimi e spesso superficiali. Gli investimenti e in particolare il personale messo a disposizione per i controlli sono irrisori, eppure quasi il 70% delle poche aziende visitate ha presentato profili di irregolarità sotto più ambiti.
Una strage silenziosa rispetto alla quale la società si sta abituando lentamente a essere indifferente e ad accettare che queste soltanto possono essere le vite che aspettano uomini e donne che sudano, lavorano, si sacrificano, muoiono, il più delle volte troppo presto.