La storia della città di Napoli, intrecciata da vicende felici e drammatiche, si riflette nella sua architettura e nei segni lasciati nel corso dei secoli dagli esponenti dei ceti dominanti che hanno costruito ville, palazzi e giardini per dar conto del proprio status e, allo stesso tempo, godere delle bellezze del luogo. Non a caso, dal II secolo a.C., Napoli venne eletta città degli otia perché la crescita del porto di Pozzuoli, potenziato dai Romani, le aveva fatto perdere il suo ruolo di polo finanziario e mercantile. Nell’82 a.C., inoltre, ci fu un ulteriore abbandono delle attività di produzione industriale e di vendita, favorendo invece quelle agrarie e rendendo, di conseguenza, Napoli perfetta come luogo di riposo e studio, lontano dalle questioni politiche e militari, godendo delle bellezze naturali e culturali che l’impronta greca sapeva offrire.
Nello specifico, l’intera fascia costiera era considerata il luogo ideale per il lusso, lo svago, per la vita meditativa e la riflessione filosofica da parte degli aristocratici e degli uomini di cultura. Possedere una villa era uno status symbol di grande ricercatezza affinché fosse possibile mantenere rapporti sociali e costruire una rete di relazioni utili sia in ambito culturale che politico. John d’Arms, professore dell’Università di Cambridge nel Massachussets, ha definito questi avvenimenti con il termine Villa Society.
La Napoli degli otia ebbe varie tipologie di ville: le urbanae, situate nelle zone verdi della città e solitamente in luoghi più appartati e lontani dal caos del centro cittadino, ma comunque non troppo distanti da esso; le rusticae, ubicate in campagna e destinate alla produzione agricola; le maritimae svincolate da esigenze produttive e dedicate soltanto al piacere. Con il passare del tempo, queste rappresentavano sempre più prestigio e potere, di conseguenza, nacque la moda di possedere ville lussuose sul mare per poter beneficiare delle bellezze paesaggistiche. La presenza imperiale contribuì a conferire lustro a tutta la costa del golfo, considerata la più bella, elegante e colta del mondo romano. Da Sorrento a Oplontis, da Baia a Ercolano, da Pompei a Stabia, furono costruite delle dimore bellissime arredate da preziosi oggetti d’arte provenienti da ogni parte dell’impero.
Esempi perfetti sono la villa di Lucullo, la villa di Bruto e la villa di Vedio Pollione. Secondo Plutarco e Plinio il Vecchio, la villa di Lucullo – oltre quella di Megaride e di Miseno – si trovava alla punta di Posillipo. Niccolò Carletti nel suo Topografia universale della città di Napoli, descrivendo Posillipo ed elencando le ville della zona, scrive: Terminava col promontorio la singolarissima villa di Lucullo, che distendevasi infino al luogo, in oggi detto la “Cajola” e volgarmente “Gajola”. La proprietà di Lucullo comprendeva anche l’isola di Nisida e infatti il Celano scrive che Nisida ebbe il nome di Castrum Lucullanum, come con tutta la spiaggia della terra ferma rimpetto all’isola e alla parte di Pozzuoli. Il territorio sarebbe passato poi a Pollio Felice – come scrive Yvonne Carbonaro nel suo Le ville di Napoli –, nella cui casa era possibile vedere il mare da ogni stanza, con scorci su Procida e Capo Miseno fino ad arrivare a Pizzofalcone. Il successivo proprietario di Nisida fu Marco Giunio Bruto la cui villa fu posta, secondo quanto scrive Maiuri in Passeggiate campane, dove era stato costituito l’ergastolo borbonico con la torre sorta sull’area della residenza del Piccolomini.
Nel periodo augusteo, da Miseno a Punta della Campanella, vi erano numerosissime ville e palazzi. Nel tratto tra la Gaiola e Marechiaro, infatti, sono molti i resti di costruzioni romane, alcuni sommersi, altri in parte affioranti. Robert T. Gunther, studioso inglese, nel 1913 pubblicò il libro Pausilypon. The imperial Villa near Naples in cui raccontò dei suoi dieci anni di studio sui siti archeologici della zona e dei cambiamenti che il bradisismo aveva causato alla fascia costiera. Secondo lo studioso, fino al secondo secolo dell’impero, a Posillipo la terra era stata di cinque metri sopra il livello del mare, quindi più alta, con la fascia litoranea più ampia. Gli scogli e le secche che affioravano, quindi, non erano altro che resti di costruzioni antiche, probabilmente cinque o sei grandi ville romane con annessi ninfei, padiglioni, logge. Di queste villae maritimae la più importante è quella di Publio Vedio Pollione, com’è possibile constatare dai residui visibili. Questo importante personaggio politico, morendo, lasciò all’imperatore Augusto, suo amico, l’eredità dei suoi beni e anche il Pausilypon. La struttura fu ampliata, diventando una vera e propria residenza imperiale, prototipo perfetto di ville di otium e uno dei primi esempi di villa costruita adeguando l’architettura alla natura dei luoghi che svolgevano varie funzioni: da quello residenziale all’accoglienza, da ludico a terminale. Il modello ha poi avuto seguito con grandiose realizzazioni come la villa Adriana di Tivoli.
Nella zona sovrastante la baia di Trentaremi, sul terrazzamento più alto, si estendeva la pars publica del complesso residenziale caratterizzata soprattutto da due edifici per spettacoli, un teatro e un odeon. Le strutture della villa con il passare del tempo sono state ricoperte dalla vegetazione e dal terreno, mentre gli edifici sul mare sono sprofondati in acqua per via del bradisismo. È rimasto soltanto il ricordo dei toponimi Mons Posillipensis, Villa Posilipi e casale Posilipi. Infine, il nome della villa, Pausilypon, che significa tregua alle pene, con il tempo è stato esteso a tutto il colle, precedentemente denominato Ammeus.