Le ville gentilizie con giardini di Napoli, a partire dalla seconda metà del XV secolo, rappresentarono un preciso status sociale. Fuori le mura aragonesi, quindi, in un contesto paesaggistico decisamente rinascimentale, sorse la villa del marchese di Vico.
Benedetto Croce nel suo Storie e leggende napoletane racconta: C’erano a Napoli molti palazzi “degli spiriti” nei quali si udivano strani rumori e si vedevano strane e paurose apparizioni. Gli ultimi avanzi della più antica e secolarmente famosa di queste “case di spiriti” sono stati sgombrati nella costruzione del nuovo rione del Vasto, fuori Porta Capuana: i ruderi della magnifica villa detta il “Paradiso”, che aveva fatto sorgere nel secolo decimosesto Colantonio Caracciolo, marchese di Vico. Costruita con gusto umanistico, con portici, logge e sale dipinte da Andrea da Salerno, adorno il giardino di statue antiche e moderne nei suoi viali, e di fontane e giuochi di acqua, sulla porta vi si leggeva un’epigrafe, con la data del 1543, nella quale il marchese di Vico dedicava «Genio has haedes, Gratiis hortos, Nymphis fontes, nemus faunis, et totius loci venustatem Sebeto et Syrenibus». Decadendo quella famiglia sulla fine del Cinquecento, e negletta la bellissima villa, cominciò la paurosa reputazione di quel luogo come casa degli spiriti, mossa al dir di taluni, dalla epigrafe della porta, che con la sua dedica alle deità pagane pareva quasi un omaggio al diavolo e, secondo altri, della eresia onde si erano resi colpevoli o sospetti i suoi padroni (si erano convertiti al Calvinismo), ma forse semplicemente dalla vaga impressione di paura, che presentano tutti i luoghi abbandonati e silenziosi. Certo è che nel corso del Seicento e il Sarnelli e il De Magistris e il Parrino e altri, pur sospettandole di favole, accennano alle cose misteriose, che in quel recinto accadevano; e intanto, un po’ per volta, il giardino veniva distrutto, le fabbriche abbattute o riadattate, e agli “spiriti” finì col mancare del tutto quella dimora loro propizia.
Villa il Paradiso rimase per molto tempo deserta, ma soltanto a partire dal 1647, a seguito del cannoneggiamento da parte della flotta di don Giovanni d’Austria, iniziò una fase di degrado. I ruderi del palazzo furono avvolti dalla vegetazione e, come scrivono Yvonne Carbonaro e Luigi Cosenza nel loro Le ville di Napoli, si cominciò a raccontare che fossero abitati da spiriti, si parlava di rumori notturni stranissimi, di cadute di pietre, di sparizioni di persone che si erano avventurate tra quelle rovine.
Intanto, i palazzi del centro di Napoli, per via della grande affluenza di nobili nella capitale, continuarono a sorgere, seppur lo spazio a disposizione fosse sempre più scarso per volontà di don Pedro di Toledo. Questi, infatti, aveva imposto agli aristocratici di stabilirsi in città o, se ciò non fosse stato possibile, a trattenervisi per periodi lunghi. Lo scopo del viceré era quello di tenere sotto controllo le pretese di autonomia. I palazzi erano dunque addossati l’uno all’altro o raggruppavano più immobili: in questo caso prendevano il nome di case palaziate in cui la famiglia aristocratica dava asilo anche alla numerosa servitù, ma non mancavano abusi, prepotenze, controversie tra nobili. Gli aristocratici costruivano anche ville da diporto nei dintorni della città – collocate tra la campagna e il mare – che potevano usufruire di confini e superfici più ampie. Il legame tra le ville e gli “spassi” era assai stretto, erano il luogo perfetto dove trascorrere i mesi più afosi al fresco per questo l’intera famiglia vi si trasferiva. Don Pedro aveva rivolto particolare attenzione alla zona flegrea e a Pozzuoli, di conseguenza ciò comportò un fiorire di ville e casini nobili su tutta la collina di Posillipo.
Splendidi verzieri – in origine verziere, termine che si riferiva al giardino di piante basse, orto e viridario a giardino alberato; i due termini sono poi diventati sinonimi – venivano costruiti vicino al mare. La costa partenopea, infatti, era tornata in auge in epoca aragonese, diventando una costante del gusto e della raffinatezza dei costumi delle classi colte per i secoli successivi. In epoca spagnola, invece, i viridari assunsero connotazioni più scenografiche.
Gli “spassi di villa” e i piaceri delle “delizie de’ giardini” sono diventati temi su cui la letteratura barocca si è intrattenuta spesso, anche con l’utilizzo del latino, soffermandosi in virtuosismi lessicali centrati sul topos di deliciae come sinonimo di villa. Sul concetto di delizia, che oscilla da luogo dello spirito a luogo di edonismo e voluttà, fa rifermento Renata D’Agostino nella sua relazione Un inedito di accademia seicentesca: “Ch’il Mare sia più delizioso della selva” che attribuisce al poeta Onofrio Riccio, custodito nella Biblioteca dei Gerolamini di Napoli.
La D’Agostino scrive: Qui l’autore fornisce un catalogo di mirabili loci ameni che dal rigoglioso e fruttiferi brolo metatemporale del Palazzo di Alcinoo, dal mitico pomario delle Esperidi, dai leggendari orti pensili dei palazzi reali assiri, culmina, pour cause, nel giardino mariniano di Adone, fecondativo di voluttà e vertiginosa sintesi di arte e natura […] in una prospettiva di emulazione retorica del modello poetico più nuovo e sbalorditivo del momento, quello, appunto dell’Adone.
Molto antica è la storia del lemma deliziale, che conosce un largo impiego sin dalla tradizione scritturale, dove è accolto con valore semantico riferito alla sfera della spiritualità, che conserverà nella letteratura agiografica medievale. Nella classicità esso si afferma, nell’accezione rovesciata, con precise implicazioni terrene ed edonistiche, con cui rispunterà nel corso della nostra letteratura con particolare interesse nel secondo Cinquecento (si pensi a Tasso) e, più tardi, in una varietà di riformulazioni, in epoca barocca. – Giovan Battista Marino, poema Adone, Le delizie, canto VII, nota 17