«Meglio essere una cattiva madre e una cattiva amica piuttosto che una cattiva attrice. Anche se tu non mi perdoni, il pubblico mi perdona», queste lapidarie parole che Fabienne Dangeville, interpretata da Catherine Deneuve, rivolge alla figlia Lumir (Juliette Binoche) in Le verità riassumono molto bene il carattere del personaggio: un’attrice, ormai avanti con l’età, che ha guardato egocentricamente sempre e solo a se stessa, sacrificando la famiglia e gli affetti sull’altare del successo professionale. La pubblicazione di una sua autobiografia diventa l’occasione per Lumir, che vive in America e fa la sceneggiatrice, di andare a trovare la madre in compagnia del marito Hank (Ethan Hawke) e della figlia Charlotte. La sua permanenza nella villa di Fabienne diventerà occasione di confronto e ricapitolazione del loro rapporto e soprattutto dei loro conflitti e recriminazioni. Ma non solo: accompagnando per alcuni giorni la madre sul set di un film che sta girando, la figlia potrà entrare in punta di piedi nel mondo della genitrice e magari imparare a conoscerla meglio.
È proprio tramite la finzione del film nel film che, come nell’Amleto di Shakespeare in cui una rappresentazione teatrale evidenzia la realtà, verranno fuori le verità del titolo – in originale, La Vérité, al singolare –, pellicola di apertura della Mostra del Cinema di Venezia 2019. La trama del lungometraggio che è impegnato a girare il personaggio di Fabienne è, guarda caso, la storia fantascientifica di una madre che, ammalatasi di una sindrome molto rara, deve vivere in un particolare ambiente che può essere ricostruito solo su un’astronave e così lei torna sulla Terra, a trovare la famiglia, soltanto ogni sette anni. A causa dei paradossi temporali einsteiniani tipici del genere, non invecchia mai e così ogni volta si ritrova, sempre giovane, a fare visita a una figlia che invecchia e che, nell’ultima fase della vita, viene interpretata proprio dalla Dangeville. Quale metafora più calzante potrebbe esserci per la relazione tra Fabienne e Lumir? Quest’ultima, non a caso, non manca di rimarcarlo in un gioco di rispecchiamento tra finzione e realtà fin troppo scoperto e, diciamolo, un po’ didascalico, che il regista Hirokazu Kore-eda imbastisce.
Per fortuna, il gioco delle parti non si risolve qui. Ci sono, infatti, verità che Lumir ancora non conosce del rapporto con la madre e che potrebbero, magari non del tutto, indurla a perdonare Fabienne o, perlomeno, ad accettarla. C’è poi la giovane attrice di successo, Manon, che nel film di fantascienza interpreta la donna che non invecchia mai e rappresenta uno schiaffo per l’attrice ormai in declino che teme di non essere più all’altezza, consapevole di essere stata scalzata dalle nuove generazioni (se qualcuno sta pensando al bellissimo Eva contro Eva di Mankiewcz con Bette Davis pensa bene, per chi invece non lo conosce consigliamo di recuperarlo). In questo, scatta il gioco meta-cinematografico tra Fabienne e l’attrice Catherine Deneuve che si ritrova a interpretare un personaggio che si rifà inevitabilmente a se stessa e al suo ruolo nella storia del cinema francese e mondiale. Il film diventa così una riflessione sulla finzione e sul rapporto ambiguo che si crea tra il recitare sul set e l’interpretazione di un ruolo nella vita nonché sul lavoro dell’attore. In una scena di cui non possiamo dire, Fabienne si rammarica di non essere riuscita a utilizzare delle emozioni appena scoperte grazie a un confronto con la figlia per recitare in modo più convincente la scena-madre del lavoro che ha appena concluso di girare. La recitazione e la narrazione, dunque, come vampirizzazioni del reale, considerazioni non inedite ma non da poco.
Il fatto che Lumir sia una sceneggiatrice a sua volta, poi, e che quindi inventi storie, complica ancora di più le cose. Soprattutto nel momento in cui questa si diverte a scrivere copioni per le persone della sua famiglia: redigerà un discorso di scuse che la madre dovrà a Luc, il tuttofare di Fabienne che si è licenziato dopo decenni di onorato servizio per non essere stato citato nel libro di memorie dell’attrice, o, ancora, scriverà delle piccole frasi di conforto che la figlia Charlotte dirà alla nonna in un momento non facile. Ecco che la narrazione di finzione influenza la realtà, le vite dei personaggi del film potrebbero essere frutto di una sceneggiatura, cosa che, in fin dei conti realmente è. Scopriamo inoltre un lato di Lumir più manipolativo di quanto non sospettassimo ed è un peccato che questa traccia non sia esplorata ulteriormente da Kore-eda perché sarebbe interessante avere la figlia come demiurgo nascosto dell’intera vicenda.
In aggiunta, c’è un personaggio scomparso di cui tutti parlano, ovvero Sarah, l’attrice e collega di Fabienne che ha fatto da seconda madre a Lumir e verso la quale Fabienne provava gelosie professionali e personali. La grande assente della vicenda, un’attrice forse più brava di Fabienne che le avrebbe rubato l’amore della figlia, diviene quindi l’ombra ingombrante di questa riunione di famiglia, un fantasma del passato la cui memoria ha condizionato per sempre le vite di madre e figlia. Proprio a partire dal confronto sulla sua figura, sarà possibile per Fabienne e Lumir, se non riconciliarsi, almeno accettarsi a vicenda. Il personaggio assente di Sarah, però, non è solo un pretesto di conflitto e riconciliazione. A un certo punto Fabienne tira fuori un vecchio vestito di Sarah e lo fa indossare alla giovane attrice Manon, risvegliando in Lumir antichi ricordi della madre putativa. Quel vestito, non per il colore ma per la foggia anni Sessanta, ricorda a chi scrive uno degli abiti che la stessa Deneuve indossava in Bella di giorno (1967). Che il fantasma di Sarah sia proprio la Catherine giovane della sua epoca d’oro? In fondo cos’è che l’attrice ormai sul viale del tramonto va ancora inseguendo se non i fantasmi della sua giovinezza? Ecco che il cerchio meta-cinematografico si chiude qui, con il riferimento a Gloria Swanson, la stella in declino protagonista del capolavoro di Billy Wilder Viale del tramonto.
La Deneuve si confronta con i propri fantasmi e con Juliette Binoche, alfiera di una generazione successiva di attrici che, a sua volta, sta lasciando il campo a Manon, il personaggio che nel film rappresenta la nuova stella. A differenza dei toni lugubri, da noir, della pellicola di Wilder, però, l’atmosfera qui si fa più leggera e molto viene filtrato dalla sensibilità e dall’innocenza della piccola Charlotte, la figlia di Lumir, che vede la nonna come una strega buona, capace di lanciare incantesimi che trasformano gli ex mariti in enormi tartarughe e la compagne di scuola cattive in lumache. Come in altre opere di Kore-eda – il bellissimo Nessuno lo sa del 2004, per esempio – i meccanismi della famiglia vengono messi al microscopio e i bambini offrono un filtro tramite il quale le verità possono rivelarsi.
Infine, c’è il libro di memorie che Fabienne ha scritto e nel quale Lumir ravvisa una serie di invenzioni e abbellimenti nonché di omissioni. L’attrice, chiamata a rispondere di questo, si giustifica dicendo che si tratta della sua biografia e che quindi può metterci ciò che vuole ma soprattutto affermando che la verità non deve mai rovinare una buona storia. Insomma, la finzione prima di tutto, sempre e comunque, purché sia al servizio di una narrazione efficace: nient’altro che la base da tenere a mente per ogni buon sceneggiatore. Per dirla in un’altra maniera, per esempio come in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford: Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda. Sostituiamo la parola West con cinema e il gioco è fatto.
Come abbiamo visto, c’è tanta carne sul fuoco e il regista giapponese, Palma d’Oro nel 2018 a Cannes con Un affare di famiglia, orchestra molto bene il tutto, aiutato dal carisma di due grandissime attrici che con la loro sola presenza diventano portatrici di un pezzo di storia del cinema d’autore, francese e non. Il film non sfugge però a una programmatica meccanicità nel perfetto dispiegarsi delle varie metafore sottese alla storia che rendono il tutto più artificioso ed eccessivamente calcolato rispetto anche ad altre pellicole dello stesso autore più fresche e incisive. Tuttavia, lo spettacolo delle due dive Deneuve e Binoche insieme, nonché l’arguta ironia e leggerezza con cui Kore-eda colora abilmente la storia, meritano in ogni caso il prezzo del biglietto.