L’Ottocento fu un’epoca di profonde trasformazioni. Diede inizio all’età moderna, ai fenomeni dell’Illuminismo, delle grandi rivoluzioni e, in storia dell’arte, del Neoclassicismo e Romanticismo. Abbandonate le ridondanti forme tardobarocche e rococò, se da un lato ci si rivolse a essenzialità e ritorno all’antico, dall’altro si affermò una nuova soggettività e attenzione ai sentimenti. È nella pittura di paesaggio che si collocò la cosiddetta Scuola di Posillipo, uno dei più celebri filoni vedutistici del meridione italiano, nata intorno al 1820.
Tale denominazione la dobbiamo allo storico Pasquale Villari, il quale nel 1869 scrisse: «La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano […]». Si tratta di un gruppo di paesaggisti attivi a Napoli dagli anni Venti del 1800, i cui capostipiti possono essere individuati nell’olandese Anton Sminck van Pitloo (1791-1837) e nel partenopeo Giacinto Gigante (1806-1876). Altri esponenti furono Achille Vianelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclère, Vincenzo Franceschini, Beniamino De Francesco e Salvatore Fergola.
Finalmente la pittura di paesaggio, da sempre considerata un genere minore, godeva di maggiore dignità e autonomia, libera dai vincoli accademici dell’epoca e in grado di carpire gli insegnamenti dell’arte europea per poi trarre conclusioni assolutamente originali. Proprio grazie alle influenze di artisti stranieri soggiornati a Napoli, come William Turner, Camille Corot, Joseph Rebell, gli autori di Posillipo seppero coniugare il paesaggio lirico con quello dal vero, in linea con la poetica verista che a breve avrebbe travolto l’Italia.
Fu proprio nell’atelier di Pitloo, giunto a Napoli nel 1815, che il gruppo cominciò a riunirsi e scambiarsi nuove idee. Il pittore olandese introdusse un’interessante fusione tra ciò che il paesaggio era oggettivamente e ciò che, emotivamente, gli trasmetteva. Alternando visioni a volo d’uccello a inquadrature più ravvicinate, i suoi dipinti mostrano una nuova verità e pure un’eco di pittoresco. Ne sono chiari esempi Il boschetto di Francavilla, oggi al Museo di Capodimonte, oppure Castel dell’Ovo dalla spiaggia, i cui effetti cromatici le vibrazioni di luce rimandano a toni decisamente più romantici, specchio delle sue più intime suggestioni.
Altro massimo rappresentante della Scuola fu Giacinto Gigante, pittore degli scorci urbani, della costiera amalfitana, delle assolate campagne flegree e delle isole. Si formò come topografo, apprendendo l’uso della camera ottica – la nostra macchina fotografica – che gli permise di realizzare perfette prospettive e proporzioni proiettando linee guida direttamente sul supporto. Ecco perché le sue opere hanno un taglio quasi fotografico (disegno di Napoli dalla Conocchia, 1838) e allo stesso tempo un sentimento lirico dato dalle atmosfere luminose e i toni poetici dell’acquerello. Fondamentale, per Gigante, fu l’osservazione en plein air, cosa che lo avvicinava agli impressionisti, ma senza mai tralasciare il riferimento dal vero, come gli sgargianti Tramonti a Capri o a Caserta.
Le vedute della Scuola di Posillipo ebbero inoltre il merito di introdurre il mercato dei souvenir, acquistati dagli stranieri in viaggio nel Sud Italia come ricordo di quei suggestivi paesaggi, contribuendo alla circolazione di tali opere anche oltralpe in anni in cui, a breve, sarebbe germogliato un fenomeno francese ben più noto: l’Impressionismo. Ma se la Scuola di Posillipo aveva posto le basi per una rivalutazione del tema paesaggistico, in linea con il fervore ottocentesco, un altro gruppo partenopeo sopraggiunse, ampliandone la poetica: la Scuola di Resìna.
L’Italia era in balia delle rivoluzioni liberali e le lotte per l’unificazione nazionale che portarono l’arte verso una maggiore adesione alla realtà: nasceva il Realismo. Tramutatosi in Verismo nello Stivale, si differenziava soprattutto per l’assenza di una denuncia sociale. A interessare gli artisti era la mera realtà, la sua essenza, e perciò l’attenzione al paesaggio si estendeva finanche al quotidiano. Inoltre, proliferavano le libere scuole, insofferenti all’Accademia e desiderose di ricercare nuovi e autonomi linguaggi.
Tale gruppo di pittori fu attivo dal 1863 – anno dell’arrivo a Napoli di Adriano Cecioni – al 1867 circa – anno del ritorno a Parigi di Giuseppe De Nittis, tra Portici e Resìna, l’attuale Ercolano. Oltre ai già citati Cecioni e De Nittis, tra gli esponenti ricordiamo Marco De Gregorio e Federico Rossano, ai quali si aggiunsero in seguito Michele Tedesco, Antonino Leto, Raffaele Belliazzi e Camillo Amato. Non è facile, però, stilare una lista precisa poiché va tenuto conto delle discrepanze degli studiosi riguardo l’inserimento o meno di artisti vicini al movimento macchiaiolo, dai tratti simili ma concentrato in Toscana e più affine al Realismo francese. Proprio Cecioni (1836-86) si trovava nel mezzo, avendo in comune la scelta di tematiche sociali o rurali, come si nota ne Le Ricamatrici, del 1866.
A Portici, luogo di ritrovo degli esponenti di Resina erano il Palazzo Reale – De Gregorio vi aveva anche il proprio studio – e l’antico Caffè Simonetti. Si plasmava una pittura autentica, senza l’ausilio del disegno preparatorio, immediata e più tonale. Rappresentazioni di panorami, scorci, frammenti di vita quotidiana, dal Vesuvio alla costa, sotto il sole mediterraneo. Giuseppe De Nittis (1846-1884) si dilettò in vedute della città dalla luce tersa e il colore intenso (Appuntamento al Bosco di Portici), mentre Marco De Gregorio (1829-1876), l’unico originario di Resina, si orientò verso una pittura più sobria (Via di Resìna). Insieme ai paesaggi, protagonisti diventavano le strade e i casali, le popolane, i pescatori, i contadini, gli scugnizzi, in tutta la loro verità e dignità.
Andando via da Napoli, De Nittis non poté far a meno di ricordare i bei momenti trascorsi: «Che bei tempi!» scrisse. «Con tanta libertà, tanta aria libera tante corse senza fine! E il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti! Lontano le isole di Ischia e di Procida; Sorrento e Castellammare in una nebbia rosea che a poco a poco veniva dissolta dal sole…».
Assieme alla Scuola di Posillipo, quella di Resìna si identifica come massima portavoce della pittura di paesaggio della Napoli ottocentesca. Prese le distanze dall’ambiente artistico ufficiale dell’epoca, considerato troppo ipocrita e superficiale, le due correnti ci hanno presentato vedute, spaccati di vita vissuta, un variegato e sincero panorama delle terre del Mezzogiorno, tanto care ai paesani quanto ai forestieri.