È da qualche settimana ormai che in Sudan si comincia a parlare di guerra civile. Da circa venti giorni, infatti, le Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare delle Forze di Supporto Rapido (RSF), guidate da Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti, si combattono nelle strade di Khartoum e in numerose altre regioni del Paese. Si stima che gli scontri, iniziati il 15 aprile proprio in concomitanza con le festività per la fine del Ramadan, abbiano provocato poco meno di seicento vittime e le proiezioni più aggiornate parlano di 800mila potenziali richiedenti asilo nei Paesi limitrofi se gli scontri dovessero protrarsi. Nessuno si azzarda a fare stime sui numeri degli sfollati interni.
Il Sudan è un Paese importante nella regione in cui si trova: a cavallo tra Medio Oriente, regione del Sahel e Corno d’Africa, è ricco di risorse naturali (soprattutto oro, ferro e gas naturale) e di una storia antica affascinante. Ma è anche un Paese che per molti anni è stato nella lista di “Stati canaglia” degli USA a causa dei legami del suo governo con le reti di terrorismo jihadista internazionale. Il Sudan, infatti, è stato governato per trent’anni da un dittatore, Omar al-Bashir – nel 2009 condannato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità –, e ha una lunga storia di guerre e colpi di Stato che affonda le proprie radici in un rapporto estremamente sbilanciato tra l’élite arabo-musulmana della regione di Khartoum, che ha da sempre controllato il potere politico ed economico, e tutte le sue periferie, che sono invece state considerate esclusivamente come fonti di materie prime da sfruttare.
Per capire a fondo la situazione che osserviamo oggi bisogna in realtà andare indietro di qualche anno. Nel 2019, dopo mesi di proteste di piazza causate da una situazione economica disastrosa e da un repentino aumento dei prezzi seguito alla soppressione dei sussidi statali su carburante, grano e altri beni essenziali, un movimento simile a quello delle primavere arabe ha deposto il dittatore Omar al-Bashir che governava il Paese dal 1989 con l’appoggio, seppur altalenante, dei movimenti islamisti. Le proteste erano state animate dalle associazioni di professionisti sudanesi e da altre formazioni politiche della società civile. La “rivoluzione”, come poi è stata chiamata, ha avuto una portata unica nella storia politica sudanese: la società civile, seppur sempre presente e attiva in Sudan, non aveva mai ottenuto risultati così evidenti e promettenti e le domande di democratizzazione e di secolarizzazione dello Stato erano più forti che mai.
Dopo la caduta di al-Bashir, tecnicamente deposto dai militari (chenella storia politica sudanese hanno sempre giocato un ruolo importante), è stato istituito un Consiglio Sovrano a composizione mista civile e militare, presieduto dal generale al-Burhan e dal suo vice, Hemedti. Abdallah Hamdok, un economista di fama internazionale, è stato chiamato a presiedere un governo di transizione civile che avrebbe dovuto realizzare tutte le riforme necessarie alla transizione democratica.
Hamdok non ha però avuto vita facile. L’economia del Paese era in sofferenza fin dal 2011, quando la secessione del Sud Sudan lo aveva privato del 75% dei giacimenti petroliferi che si trovavano a sud del confine con la regione meridionale. L’incapacità di promuovere una reale diversificazione dell’economia rispetto alla sua dipendenza dall’esportazione di materie prime, la corruzione e l’isolamento internazionale del regime di al-Bashir avevano aggravato la situazione al punto da portare il Paese sull’orlo della banca rotta. La rispettabilità di Hamdok aveva dato un po’ di respiro finanziario, in cambio però di alcune misure di austerità che avevano comunque provocato resistenza nelle piazze. Tuttavia, i veri problemi sono insorti, per Hamdok, quando il governo ha istituito il Comitato per lo Smantellamento del Regime.
Questo comitato aveva l’obiettivo di tracciare tutti i legami tra l’apparato militare e il sistema economico sudanese, che erano proliferati durante il regime di Bashir garantendogli la lealtà dell’esercito e la longevità del suo governo. Un rapporto del Centre for Advanced Defence Studies (C4ADS) pubblicato nel 2022 ha infatti dimostrato l’esistenza di un vero e proprio deep state sudanese, in cui l’élite militare controlla i gangli strategici di tutta l’economia gestendo direttamente oltre quattrocento aziende e società in ogni settore economico, dall’agricoltura alla produzione di armi. Nell’ottica di una transizione democratica, questo apparato andava smantellato, così come le numerose milizie e gruppi paramilitari che il governo di Bashir aveva spesso utilizzato per reprimere insurrezioni armate nelle periferie del Paese che avrebbero dovuto essere riassorbite nell’esercito sudanese. Le RSF controllate da Hemedti erano tra queste.
Istituzionalizzate nel 2013, le RSF erano originariamente una milizia attiva in Darfur e composta principalmente da membri della popolazione Rizeigat, una comunità di pastori che vive a cavallo tra il Darfur e il Ciad. Il governo di Omar al-Bashir aveva utilizzato questa milizia per reprimere i movimenti ribelli che dal 2003 erano emersi nella zona, rendendola nota con il nome di janjaweed, letteralmente “diavoli a cavallo”. Il potere acquisito in Darfur dalle RSF, e in particolare dal loro leader Hemedti, aveva fatto sì che quest’ultimo assumesse il controllo di tutte le principali regioni di estrazione aurifera, che si trovano proprio in Darfur. Un riassorbimento delle RSF nell’esercito avrebbe significato non soltanto la fine politica di Hemedti, ma anche la fine del suo impero economico, legato com’è alla sua potenza militare.
Uniti in un temporaneo matrimonio di convenienza, al-Burhan e Hemedti hanno guidato un colpo di Stato il 25 ottobre 2021, mettendo fine brutalmente alla transizione democratica. È cominciata così una lunga fase di stallo, motivata principalmente dal fatto che i reali interessi dei due leader sono profondamente diversi. Se da un lato al-Burhan aspira a una sorta di restaurazione del regime di al-Bashir (cosa che è diventata evidente nel momento in cui ha cominciato a riassorbire nel governo esponenti dei principali movimenti islamisti che sostenevano il regime), centralizzando il potere politico e militare e ripristinando le vecchie relazioni tra centro e periferia; dall’altro, Hemedti ha ambizioni più radicali. Anche lui non è interessato a una transizione civile, ma vuole prima di tutto mantenere inalterato il proprio potere. Questo passa necessariamente o per la sopravvivenza delle RSF, contro ogni principio di centralizzazione, oppure per una sua presa di potere a livello centrale.
Mentre nel corso dell’ultimo anno e mezzo le divergenze tra i due sono andate aumentando, entrambi hanno coltivato alleanze regionali in supporto alle proprie posizioni: al-Burhan con l’Egitto, con il quale sono in essere rapporti di cooperazione economica e militare, ed Hemedti con Arabia Saudita ed Emirati Arabi (le RSF hanno anche combattuto in Yemen al fianco dei sauditi per sugellare quest’alleanza) e il gruppo Wagner (che è il principale acquirente dell’oro darfuriano, che acquista da anni in cambio di armi alle RSF).
Gli scontri scoppiati il 15 aprile sono il frutto di questo quadro complesso, in cui i due leader si scontrano in quella che è a tutti gli effetti una battaglia esistenziale per entrambi. Se è vero che i sistemi di alleanze che al-Burhan ed Hemedti hanno coltivato nel corso degli anni costituiscono importanti canali di approvvigionamento finanziario e di armi, è anche fondamentale non sopravvalutare il potere di questi attori nel determinare l’andamento del conflitto, che è mosso da ragioni prevalentemente interne, e soprattutto la volontà dei due di intavolare un negoziato credibile.
Si discute molto su quale possa essere la sede di questo eventuale negoziato: se da un lato il meccanismo tripartito, costituito da Autorità Intergovernamentale per lo Sviluppo (IGAD, organizzazione regionale del Corno d’Africa), Nazioni Unite e Unione Africana sembrerebbe essere la sede più neutrale, è anche vero che si tratta di un meccanismo che non ha un grosso potere di influenza su nessuna delle due parti – non può infatti mettere in atto nessun incentivo o misura coercitiva. Diverso è il caso del Quad, un gruppo costituito da USA, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati Arabi: per quanto la maggior parte di questi attori siano percepiti come schierati (USA e Regno Unito dalla parte dell’Egitto e quindi di al-Burhan, i Paesi del Golfo dalla parte di Hemedti), proprio la loro volontà di collaborare, e la loro maggiore capacità di influenza sui proprio alleati, potrebbe rappresentare un punto di forza.
Mentre a Khartoum continuano le violazioni dei cessate il fuoco, gli stranieri vengono evacuati e la popolazione civile cerca di mettersi in salvo come può, resta importante ricordare che, qualsiasi strada negoziale venga intrapresa, le domande di democrazia e secolarizzazione da parte della società civile sudanese sono più forti che mai e che, se si vuole davvero provare a risolvere una parte degli storici problemi del Sudan, non dovranno essere sacrificate sull’altare di una stabilità di breve periodo.
Contributo a cura di Sara de Simone (Scuola di Studi Internazionali, Università di Trento)