Quando la macchina da presa viaggia incollata all’asfalto e si sente lo stridere delle gomme, si avverte quasi la puzza dell’olio che brucia e il sudore sotto il casco. Tutto il resto scompare, per chi guida e per chi guarda. Non c’è nulla di più cinematografico di un pugno di auto che si rincorre a tutta velocità e, infatti, il topos dell’inseguimento è stato ampiamente celebrato in migliaia di film, nelle forme più diverse e originali. Non tanto quanto il mondo delle corse automobilistiche che invece, stranamente, conta pochi esempi nella storia che hanno reso giustizia a una disciplina sportiva – nelle sue tante varianti – che sembra nata per la trasposizione in immagini cinematografiche. Qualche anno fa ci fu il riuscito caso di Rush (2013) sulla sfida Nicki Lauda-James Hunt ma, per trovare qualcosa di degno, tralasciando il dimenticabile Driven del 2001, si deve risalire almeno a Giorni di tuono (1990) di Tony Scott, se non a Le 24 ore di Le Mans del 1971, voluto fortemente da Steve Mc Queen che era un noto appassionato di corse.
Il film di James Mangold, che in originale si chiama Ford vs. Ferrari, titolo decisamente più congruo di quello italiano, racconta la vicenda reale di Carroll Shelby (Matt Damon), pilota che ha vinto la 24 ore di Le Mans nel 1959, e di Ken Miles (Christian Bale) – cognome che in italiano si traduce con miglia! –, corridore esperto dal carattere sanguigno che, qualche anno dopo, ha gareggiato a sua volta a Daytona e Le Mans. Shelby, che non corre più per problemi cardiaci e ha fondato una propria casa automobilistica di macchine sportive, viene ingaggiato dalla Ford per mettere su una scuderia che possa sfidare il prestigio della Ferrari nel campo delle estenuanti sfide del campionato del mondo di Endurance (ovvero gare di durata che varia dalle 12 alle 24 ore con turnazione dei piloti), di cui Daytona e Le Mans sono le più famose.
Shelby si rivolge così al suo amico e collega Ken Miles affinché lo aiuti, in qualità di pilota, in una missione che si rivelerà davvero titanica. Non solo la leggendaria supremazia della Ferrari, in questo caso incarnata dal nostro Remo Girone nel ruolo di Enzo Ferrari, l’altro ostacolo da abbattere sarà lo stuolo di dirigenti, amministratori ed esperti di marketing che vivono alla corte di Henry Ford II e che puntualmente interferiscono col lavoro genuino di Shelby e Miles. È qui, infatti, che si fonda uno dei conflitti drammaturgici su cui si basa la pellicola dell’eclettico Mangold – autore di molti lavori interessanti tra cui l’anticonvenzionale e splendido cinecomic Logan – the wolverine (2017), il remake del classico western Quel treno per Yuma (2007), il biopic su Johnny Cash Quando l’amore brucia l’anima (2005) con Joaquin Phoenix, il dramma psicologico Ragazze interrotte (1999) e l’atipico thriller Copland (1997).
Se apparentemente la competizione sembra quella tra le due case automobilistiche, in realtà il vero conflitto si consuma tra due filosofie di vita e di lavoro: la perizia tecnica nonché la passione bruciante di Shelby e Miles contro la burocrazia e l’attenzione alle politiche di immagine della corte di Ford. Ingegno e passione vs. apparenza e politica. Ovvero ancora la filosofia tutta americana di coloro che fanno contro coloro che pretendono di sapere e dirigere. È normale che l’ago morale del film penda tutto dalla parte dei due piloti. Inoltre il carattere viscerale, non disposto ai compromessi, di Miles non aiuterà di certo le cose e in più di un’occasione rischierà di non gareggiare perché inviso ai lacchè di Ford, incarnati in particolare da Leo Beebe, storico amministratore del magnate americano, interpretato dal bravo e antipatico Josh Lucas.
Lo scontro di filosofie riguarda ovviamente anche le due case automobilistiche che danno il titolo al film: la Ford, come emblema della produzione in serie e del sistema capitalistico, e la Ferrari, come rappresentante della genialità artigianale italiana che punta sulla qualità e non sulla quantità. Una scena in particolare illustra molto efficacemente tale distinzione: nella sala riunioni di Ford l’esperto di marketing Lee Iacocca (John Bernthal) illustra al disilluso industriale che cosa significa nel mondo il marchio Ferrari e come questo sia entrato nell’immaginario collettivo in quanto simbolo di vittoria e prestigio. Per farlo, l’esperto mostra a Ford alcune diapositive con simboli dell’italianità come Sofia Loren e Monica Vitti per poi passare allo James Bond di Sean Connery che nei suoi film non utilizza certo una Ford, simbolo rassicurante di affidabilità e guidabilità, ma un’auto sportiva inglese come la Aston Martin. Questa scena non è solo narrativamente importante perché darà il la a Ford per entrare nel campo della competizione automobilistica, ma anche perché diventa una sequenza teoretica, una vera e propria lectio magistralis sul modo in cui le immagini fondano l’immaginario collettivo e influenzano dunque le scelte delle persone nonché la realtà che viviamo ogni giorno. Sebbene tutti conosciamo l’influenza del sistema consumistico, vedere condensata in una sola scena la portata simbolica delle immagini e la loro incisione sul mondo reale è ben altra cosa. Solo per questo momento il film meriterebbe la visione.
Per fortuna, i meriti della pellicola non finiscono qui. C’è un terzo livello di conflitto drammaturgico da evidenziare. Parliamo ovviamente del conflitto di caratteri efficacemente rappresentati da Matt Damon e Christian Bale, che diventa non solo uno scontro/incontro tra due personalità molto diverse, cioè quella più fredda, comunque appassionata ma maggiormente disposta ai compromessi di Shelby e quella viscerale e insofferente di Miles, poco incline a venire a patti con chiunque. Il film diventa, quindi, occasione per un parallelo tra due modi di recitare piuttosto differenti: quello appunto freddo e distaccato di Damon che è sempre preciso nel restituire qualsiasi stato d’animo richieda il copione, e quello fisico, aggressivo e nervoso di Christian Bale che in ogni gesto sembra condensare il cuore di un uomo che vuole scoppiare di passione o di tristezza. In questo, il casting risulta davvero perfetto.
Per chi non conosce la storia delle gare non diremo ovviamente l’esito della storica Le Mans del ‘66 a cui prese parte Miles alla guida della Ford GT 40, ma possiamo invece dire che la resa visiva della competizione è fantastica. Come sapranno gli esperti, uno degli accorgimenti per riprendere bene una gara automobilistica è stare quanto più bassi possibile con la macchina da presa. Quanto più stai attaccato all’asfalto, più vedrai la morte che ti corre incontro dietro ogni curva. A differenza di ciò che vediamo in televisione, Mangold entra negli abitacoli per farci sentire il sudore e la paura di correre a 320 kilometri orari e soprattutto sta attaccato alle ruote oppure ai parafanghi per mostrarci in prima persona la strada che viene mangiata a folle velocità. Ammettiamo di essere piuttosto vulnerabili al fascino di una gara di auto registicamente ben orchestrata e in questo Le Mans ‘66 non delude affatto. Del resto, ciò costituisce anche il cuore tematico del film che ci porta letteralmente dentro ai concitati box delle scuderie automobilistiche dove diventa fondamentale fermarsi più volte nell’arco di gare che durano 24 ore.
Mangold ci restituisce così un universo molto differente da quello della Formula 1, al quale il pubblico italiano è maggiormente abituato. Il microcosmo delle gare Endurance è piuttosto particolare e richiede preparazioni tecniche incredibili per auto che resistono tante ore a quelle velocità, strategie di gara lungimiranti nonché piloti dalla resistenza fisica e caratteriale superiore a quelli di altre discipline automobilistiche.
La colonna sonora segue adeguatamente le vicende umane e le acrobazie automobilistiche con sonorità che ricordano volutamente il rock dell’epoca, soprattutto la ritmica richiama inconfondibilmente l’irresistibile groove dei Creedence Clearwater Revival insieme con quello dei Rolling Stones che andavano per la maggiore.
In conclusione, Le Mans ‘66 è un solido film classico americano – nell’accezione migliore del termine – in cui ci sono personaggi bigger than life che accettano sfide complesse e si contrappongono titanicamente alle avversità senza mai darsi per vinti. Non mancano scazzottate virili tra amici che ricordano tanto cinema hollywoodiano dei tempi d’oro, soprattutto i western alla John Ford, di cui Le Mans ‘66 riprende l’epicità e la capacità mitopoietica, adattandone toni e motivi a un’ambientazione moderna con le auto al posto dei cavalli. Non dimentichiamo, infatti, che Mangold ha già frequentato il genere con Quel treno per Yuma e, tangenzialmente, con Wolverine. L’andamento è lineare e avvincente, senza grosse sfumature e ambiguità, chi guarda sa sempre con chi schierarsi. Lo spettacolo è dunque garantito e lo spettatore torna a casa con due ore e mezza di emozioni e, magari, con la curiosità di saperne di più sulla vicenda di Shelby e Miles.