Sicuramente tutti riconosceranno l’immagine di copertina di questo articolo. Nonostante i suoi tanti difetti, la viralità dei contenuti del web ha un pregio indiscusso: è immediata, istantanea, spietatamente diretta. Sono passate poche ore e già sui social network la maggioranza del popolo italiano è stata informata dell’ennesima gaffe compiuta dalla Radiotelevisione italiana, quella riguardante la discussione sul perché scegliere una “moglie dell’Est”, avvenuta durante la rubrica Parliamone sabato, condotta da Paola Perego in onda su Rai Uno.
Ciò che appare come un degrado auto-evidente e un insulto quasi lapalissiano per la maggior parte dei cittadini, non rappresenta realmente un motivo di stupore per tutti quegli studiosi che si occupano di questioni di genere e che lottano quotidianamente affinché ne venga riconosciuta l’importanza. Di certo, con questa frase non si vuole addossare un atteggiamento di freddezza o un’assenza di sdegno a suddetta categoria di soggetti, bensì una sorta di assuefazione al grado di sessismo e razzismo, presente nella maggior parte dei contenuti comunicativi odierni. Il peggior destino per una battaglia si concretizza proprio quando il suo campo di lotta viene scorporato, frammentato e condannato all’oblio.
Dopotutto, come avrebbe detto Moravia, lo scandalo appartiene a una dimensione che precede, pur percependone la minaccia, l’analisi e lo studio di un determinato argomento. Potremmo dire, infatti, che in questo caso sia necessario compiere un passaggio ulteriore rispetto all’indignazione: la comprensione e l’approfondimento di questo fenomeno.
Il più grande ostacolo per il raggiungimento della parità di genere e tra i popoli, difatti, è proprio l’invisibilità costante della violenza di riferimento. Si insinua nelle parole, nelle costruzioni di senso, nei modelli mentali e assoggetta le nostre proiezioni su come il mondo debba girare. A tal proposito, mai osservazione fu più calzante di quella coniata dal sociologo francese Pierre Bourdieu, il quale nel suo celebre saggio Il dominio maschile individuò l’efficacia di una violenza non evidente o roboante, la cosiddetta “violenza invisibile”, perpetrata principalmente a danno del genere femminile.
Ovviamente, in tale mare magnum odierno di posizioni e scontri bioetici, il ruolo dell’indagine femminista e di genere vive un momento di forte crisi e anche di forte smarrimento. In molti si chiedono se abbia ancora senso parlare di questi argomenti e, se sì, quale sia la propria missione sociale e in che modo la si possa incontrare. Ovviamente non è questo il luogo per interrogarsi su una questione di tale portata, ma nel momento in cui uno dei maggiori canali comunicativi dello Stato italiano veicola determinati messaggi senza che nessuno lo impedisca o si renda conto della loro gravità, risulta evidente che siamo ancora molto lontani dalla realizzazione di quella libertà per la quale si è lottato per decenni.
Se questi discorsi hanno ancora un senso, è proprio perché sono discorsi di liberazione. Non basta, di fatto, dire alle donne che possono fare quello che pare loro, se i modelli con cui devono relazionarsi impongono delle caratteristiche e dei doveri che non le rispettano. E ci vuole un certo grado di attenzione, oltre che di sensibilità, per rendersi conto di ciò che grava sul cuore di ognuna nel momento in cui si relaziona con il proprio corpo, il proprio “genere” – qualora lo riconosca – e il proprio posto nel mondo. Non basta nemmeno rilanciare sbiadite frasi politically correct, se non si è in grado di far corrispondere le proprie parole ai propri atti o, peggio, le proprie parole al modello di rispetto e consenso che ci auspichiamo si attui nei confronti dell’Altro da noi.
Si può solo sperare che un episodio come questo apra gli occhi al popolo italiano, che lo metta in guardia rispetto al fatto che l’aver raggiunto degli obiettivi in passato non significhi aver risolto un’intera problematica o che si possa restare tranquilli in uno stato letargico, senza interrogarsi sul valore dei propri usi e costumi, perché – qualora questo accadesse – sarebbe una sconfitta per l’intera nazione.
Comprendiamo tutti che alcuni programmi della Rai siano usati come mero narcotico dalla maggior parte delle famiglie italiane, ma speriamo che a questo non corrisponda anche un sonno delle coscienze rispetto a delle tematiche che riguardano ognuno di noi. È proprio in quei contenuti quotidiani, insospettabili e leggeri, che si nascondono i maggiori semi della violenza.