Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
Nella società attuale, i mass media rappresentano un oggetto di studio provocante e provocatorio.
La comunicazione di massa – quella classe di fenomeni comunicativi che si basa sull’uso dei media, appunto – ha lo scopo, come tutti sanno, di diffondere informazioni a pubblici molto ampi nel più breve tempo possibile.
Molto spesso, però, i mass media funzionano come immagini. A cosa ci stiamo riferendo? Proviamo a chiarire con un esempio.
Per alcune persone anziane o gravemente malate – costrette a passare molto tempo davanti allo schermo – i personaggi televisivi possono sostituirsi alle persone reali. Non è raro che queste – spesso lasciate sole di fronte alla TV accesa – credano di avere una relazione personale con chi è al di là dello schermo.
Ci sono solitudini – è inutile negarlo – che si consolano attraverso queste relazioni molto particolari che non possiamo propriamente definire sociali, ma che danno l’impressione e l’illusione di esserlo.
Su un piano più generale, questa situazione può condurre a una sorta di falsa socialità. Pensiamo, ad esempio, all’impressione ingannevole che tutti potremmo avere di essere imparentati con la famiglia protagonista di una determinata fiction perché in una certa maniera quei personaggi ci fanno compagnia quotidianamente.
L’adesione a un’immagine può arrivare fino all’illusione: si produce un effetto di verità che non corrisponde ad alcuna realtà. Ci troviamo, in questo modo, in una sorta di incanto: le persone reali e quelle viste in TV si confondono.
In un mondo in cui i mezzi di comunicazione si moltiplicano, la questione è riuscire a capire se non si stia sviluppando, parallelamente, una crisi della mediazione: le immagini veicolate dai media possono realmente prendere il posto delle persone in carne e ossa?
Tuttavia, c’è anche un altro aspetto da sottolineare. È inutile negarlo e, allo stesso tempo, dobbiamo inevitabilmente farci i conti: oggi esistono solo eventi mediatizzati. Il più delle volte, infatti, gli avvenimenti di cui veniamo a conoscenza ci giungono attraverso i media e, allo stesso tempo, quelli che ignoriamo sono quelli di cui i telegiornali, i giornali e i social non si occupano.
Si può parlare di un reale processo di appropriazione degli eventi che avviene attraverso le immagini. Pensiamo alle scene dell’11 settembre, a quelle della guerra in Siria o degli sbarchi a Lampedusa: conosciamo questi fatti perché ce ne mostrano costantemente delle foto.
Sovente, però, non ci poniamo nel giusto modo dinanzi a un’immagine. Perché questa difficoltà? Perché, molte volte, domandiamo ad essa troppo o troppo poco.
Se le domandiamo troppo, se pretendiamo dall’immagine tutta la verità, saremo presto delusi: non si tratta che di pezzi strappati al reale. Ciò che noi vediamo – le Twin Towers rase al suolo, le case distrutte, il viso di un bambino a Lampedusa – è davvero poco rispetto a ciò che sappiamo. I milioni di morti, il frastuono delle bombe, i cadaveri in mare. Le immagini sono sempre, in qualche modo, inesatte.
A volte, invece, domandiamo ad esse troppo poco: le releghiamo alla sfera del documento, le estromettiamo dal campo storico e, così facendo, ne cancelliamo la sostanza stessa.
Ad ogni modo, in entrambi i casi dimentichiamo che le immagini, di qualunque natura esse siano, non possono raccontare ciò che è accaduto, non sono mai tutta la verità.
Quando mancano, però, ci risulta difficile prendere atto degli avvenimenti. L’esempio emblematico è costituito dai campi di concentramento nazisti. Mentre si consumava l’orrore della Shoah, nessuno poteva sapere realmente ciò che vi accadeva e, successivamente, le teorie negazioniste si sono avvalse proprio della mancanza di foto di archivio per tentare di negare quell’inferno.
Si può senza ombra di dubbio parlare di un processo di appropriazione, ma non bisogna dimenticare un altro aspetto importante della questione: molto spesso sono gli stessi media a manipolare l’informazione decidendo cosa si deve e cosa non si deve sapere, manipolando abilmente il grande potere delle immagini.