Economisti e politologi di tutto il mondo hanno parlato di “miracolo portoghese”, grazie alle politiche dei due governi socialisti che, dopo aver chiuso in tre anni i conti con i creditori, hanno lavorato sull’attrattività del Paese per i turisti e gli investitori, riducendo il debito pubblico sotto il 100% e la disoccupazione, passata dal 20% al 6,5%, con i complimenti del commissario UE Paolo Gentiloni che ha definito il risultato lusitano «una testimonianza degli sforzi compiuti dopo la crisi finanziaria per costruire un’economia più sostenibile».
Un modello, però, che ha cominciato a manifestare delle crepe: l’impennata degli affitti derivata dall’azione devastante delle grandi piattaforme turistiche che, unitamente alle agevolazioni fiscali che hanno attirato i pensionati da tutta Europa, affittando o comprando casa a prezzi vantaggiosi, hanno generato il fenomeno della gentrificazione. E poi, l’incremento del lavoro povero e la fragilità di un welfare indebolito, lì come ovunque, da anni di tagli hanno provocato strappi profondi nella tessitura politico-amministrativa dell’esperienza socialista che, in cinquant’anni di democrazia, era stata la prima di un governo di coalizione che aveva unito tutta la sinistra. Un altro miracolo.
Infine, a ottobre, l’inchiesta per corruzione che ha coinvolto il Primo Ministro Costa (in seguito risultato estraneo ai fatti) è sembrata la classica goccia che fa traboccare il vaso dello scontento, alimentato dalle ben note pratiche verbali dell’estrema destra che in Portogallo si chiama Chega (Basta) e fino all’altro ieri era attestata su percentuali risibilmente al di sotto dei fasti magiari, tedeschi o italiani. Mentre, oltroceano, Trump è in agguato.
E così, per come la vedo io, dal miracolo si passa al mistero, restando incomprensibile la scelta elettorale dello scorso 10 marzo. Non meno di quella espressa in Italia due anni fa. Il fascino discreto del suicidio sociale che soggioga i poveri che votano gli straricchi, gli emarginati che votano gli emarginanti, i bisognosi di felicità che votano per gli spacciatori di slogan mortiferi costruiti con recinti, muri, respingimenti, diritti amputati.
Posto che non sono una politologa, né un’analista, ma una portatrice sana di sgomento, vorrei proporre uno spunto di riflessione sul tema, incrociandolo con il dato luttuoso (ISTAT) che rileva (e rivela) la quota di popolazione con titolo di studio terziario (il modesto diploma) in Italia nella fascia di età 25-64 anni: 19% contro il 33,2% media UE e prossimo solo ai valori di Spagna, Portogallo e Malta. Alla freddezza agghiacciante dei numeri, dal mio osservatorio interno, posso aggiungere che se anche questa percentuale imbarazzante fosse il doppio, la qualità della formazione non sposterebbe il ragionamento più di tanto.
L’ignoranza, programmaticamente coltivata da oltre trent’anni, senza esclusione di mezzi, o meglio di media, è dilagata, rompendo gli argini al pensiero magico, alla promessa messianica, all’uomo o donna forte inviato/a dal destino con lo stigma riconoscibile del comando e il vessillo, tarmato e rammendato, del Dio, Patria e Famiglia. Il pensiero critico è sostanzialmente afono, vive al buio, nelle catacombe della Storia e dell’astensionismo, negletto da una rappresentanza distante, concentrata per lo più sulle sue intime e irriducibili distinzioni.
La complessità del mondo in cui viviamo ha generato il paradosso della standardizzazione, modalità certo antichissima di semplificazione gestionale, ma che oggi esprime un grado di raffinatezza assai elevato prodotto dall’interiorizzazione del vaticinio tatcheriano There Is No Alternative, datato fine anni Ottanta e oggi giunto a maturazione piena.
Come i primi cristiani evocati dalle catacombe di cui sopra, donne e uomini divergenti continuano a lavorare, impegnarsi socialmente, culturalmente, a praticare solidarietà e protezione, a differenziare rifiuti e differenziarsi nei comportamenti rispettosi della natura, praticando collaborazione contro sfruttamento. E, soprattutto, continuano a opporsi fin nel profondo del proprio animo e in ancora poche piazze alla guerra – alle guerre – questa forma arcaica, involuta e devastante (salvo che per i produttori di armi) di risolvere i conflitti. La macellazione del nemico e, con violenza aggiuntiva, delle nemiche.
È un’epoca di passioni tristi e minacce peggiori, forse sarebbe il caso di dismettere le comprensibili e rispettabili tendenze astensioniste e rimettere in sesto gli argini, ricordando che approssimazione e imperfezione sono caratteristiche della natura umana e, dunque, a volte può valere la pena votare, pure se il beneficiario del nostro voto non rispecchia la luminosa integrità dei nostri principi. A volte serve sbarrare la strada. E poi ricostruire.
Il 25 aprile il Portogallo festeggerà (?) cinquanta anni dalla Rivoluzione dei Garofani, Luís Montenegro (PSD), il vincitore delle elezioni, ha sempre dichiarato che mai avrebbe accettato di formare un governo con Chega, normalizzando l’estrema destra. Vedremo. Intanto, buon 25 aprile a loro e a noi.
Contributo a cura di Iaia de Marco