Capita a tutti noi, nella vita di ogni giorno, di imbatterci in un’immagine, un luogo, una storia che diventano una scheggia che ci si conficca nell’anima. Ci prude, ci infastidisce, anche quando facciamo altro sappiamo che è lì, sottopelle. Allora decidiamo di rimuoverla, ma per farlo dobbiamo scavare. Sono convinto che è proprio quello che è successo a Massimiliano Virgilio prima di scrivere Le creature (Rizzoli).
La storia è una di quelle che solo in apparenza segue il solco del nuovo verismo impegnato il cui principale esponente italiano è probabilmente Roberto Saviano. Il protagonista è Han, un bambino cinese che è solo fatto come un cinese ma non è un vero cinese, che in cinese conosce solo una parola e che in Cina non c’è neanche mai stato. Han è un invisibile, un fantasmino, termine che richiama alla memoria i calzini che usiamo più o meno tutti d’estate: ci sono ma non si vedono. Sprovvisto di documenti e di permesso di soggiorno, Han viene lasciato da sua madre in una casa famiglia “informale” nella periferia di Napoli.
In realtà, questa casa non è altro che un serraglio in cui tutti, a diverso titolo, sono periferici, relegati ai margini: la proprietaria, chiamata leonessa, che vive le sue giornate affogando nell’alcol il dolore per un figlio perso in tenera età; Dimitri e Ismail, altri due ragazzini affidati alle “cure a pagamento” della leonessa, ma che in realtà provvedono a se stessi con espedienti più o meno leciti; e poi c’è Nina, nipote della leonessa. Lei – che avrebbe pieno titolo di abitare la realtà del visibile: italiana, di buona famiglia, educata – è invece relegata in quel luogo dall’incidente stradale che ha ucciso entrambi i genitori e fratturato la sua colonna vertebrale già malandata. Nina è, fin dall’inizio, un punto di luce nel romanzo. Vistosi capelli rossi e lentiggini, vive chiusa in un esoscheletro di gesso che le fa un po’ da prigione e un po’ da armatura dalle brutture della vita.
A fare da sfondo alle vicende di tutti i personaggi c’è una Napoli spietata, ma non per questo meno vera. Una Napoli in cui il male è la normalità, in cui l’unico modo di sopravvivere è rispettare esclusivamente la legge della strada. È un ambiente in cui il rumore degli aerei in arrivo o in partenza dal vicino aeroporto ottunde qualunque altro senso. Luoghi, che in una sorta di sinestesia letteraria, risultano essere immancabilmente grigi nonostante il sole battente in quasi tutte le scene.
La storia segue due binari narrativi: uno al presente e uno al passato. Quello del passato è malinconico, sembra quasi giustificare quello del presente, narrando le vicende che hanno portato Han a trovarsi a vivere questa vita. Il registro del presente è accusatorio, senza speranze, non lascia intravedere che possa esserci altro oltre il male, in cui ragazzi di diverse etnie per comunicare usano l’unico idioma che li accomuna: il napoletano.
Quella lingua gutturale e rapace nascondeva la violenza di cui erano piene le loro giornate, le loro bestemmie, il male perpetrato.
Ma fortunatamente non c’è solo questo. La visione di Massimiliano Virgilio è sì, dolente e dolorosa, ma è essenzialmente poetica e speranzosa. Lo dimostra Han che spezza la catena in cui la crudeltà inflitta nasce dalla violenza subita in precedenza, lo dimostra la dolcezza del rapporto che si instaura tra Han e Nina in cui ognuno dei due salva l’altro. Lo dimostra soprattutto il finale, dove il riannodarsi (presunto) di un legame filiale dona una parvenza di redenzione a tutto e a tutti.
Perché leggere Le creature? Innanzitutto perché è una storia dei nostri tempi, in cui sono presenti tutti i temi su cui è necessaria una seria riflessione. E poi perché fa quello che dovrebbero fare tutti i libri: non si ferma a osservare e a descrivere la punta dell’iceberg ma si immerge nelle acque gelate per più di un minuto, cercando di mostrare tutto ciò che è nascosto.
Contributo a cura di Giuseppe Carotenuto, libraio:
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