Le cattive (SUR, traduzione di Giulia Zavagna) è una molotov rosa incendiaria. È un sabba di trans, lupe, streghe e puttane. È una storia di parrucche e vestiti scambiati, di battesimi queer celebrati da prostitute paraguayane, di lacrime, di porno e telenovelas, di tacchi glitterati in fuga dalla polizia. È una storia viva, crudele e oscena, il racconto di una sorellanza scandalosa: quella delle cattive, le prostitute trans del Parco Sarmiento.
Camila Sosa Villada, scrittrice trans, ci racconta i suoi vent’anni, passati tra i banchi dell’università e le macchine dei clienti, tra le case borghesi delle amiche studentesse e i marciapiedi delle cagne rabbiose del parco. Un’alleanza notturna, quella delle trans di Sarmiento, contro un mondo che ti lascia libera di rinascere donna solo con il sorgere della luna.
Le cattive sfugge all’etichetta di autobiografia, testimonianza o resoconto: la Villada inserisce elementi della sua vita – l’infanzia violenta e povera, la prostituzione – in una cornice di realismo magico, scegliendo di imbrogliare il lettore per dirgli la verità. È così che assistiamo alla metamorfosi di una trans in un uccello o alla storia dell’unica trans mannara, nata settimo figlio maschio della propria famiglia, che aveva avuto il Presidente della Repubblica come padrino. Neonati chiaroveggenti, eterne giovinezze, sante e divinità improbabili: leggende che provengono dal folklore e dai racconti popolari del Sudamerica, mescolati a lustrini, paillettes, perline e strass, in una nuova e luccicante cosmologia queer.
Ma il miracolo più improbabile è quello della maternità di Zia Encarna, il fulcro del clan delle cattive, una trans di 178 anni con l’olio motore iniettato nel seno. È lei che, tra i rovi del parco di Sarmiento, troverà un bambino, abbandonato chissà da chi, sporco e affamato. Le cattive lo porteranno nella pensione più frocia di Córdoba, la casa tutta tinta di rosa di Zia Encarna, e lì il bimbo diventerà figlio del clan: figlio di tutte, figlio di nessuna, orfano come le sue madri. Una famiglia impensabile, assurda, ma piena d’amore e tenerezza per quel bambino che chiameranno Lo Splendore degli Occhi. Un nome pieno di luce, nonostante le sue mamme scappino da essa: la luce che rivela l’ombra delle loro barbe e l’imperfezione della loro pelle, la luce che le fa nascondere nelle loro stanzette finché non va via. Il sole è un privilegio di chi non attira derisione e violenza col suo solo apparire.
«Siamo come un tramonto senza occhiali da sole, il nostro fulgore acceca, offusca chi ci guarda e li spaventa». La Zia Encarna trova sempre le parole giuste per raccontare la vita delle donne trans: costantemente in bilico tra l’invisibilità e lo splendore, tra lo scherno e il desiderio, così abbaglianti da suscitare due sole reazioni: crudeltà o lussuria. Gli occhi indiscreti della città sono puntati su di loro, lo sguardo invidioso o morboso a seconda dell’orario. E lo sguardo eccitato degli uomini è forse il più pericoloso, perché rende le trans del clan vulnerabili. Si perdono, si abbandonano in quegli sguardi, a causa del desiderio dei loro corpi e del desiderio di essere desiderate a loro volta. E spesso cadono, in spirali discendenti di violenza e abusi.
La morte, in questa storia, fa il suo capolino in mille forme. Nel profilo spettrale dell’AIDS, nel corpo muscoloso dell’ennesimo fidanzato violento, nell’odio dei vicini benpensanti, negli stupri della polizia e dei clienti. Da poco c’è stato il Trans Day of Remembrance, il giorno in cui la comunità queer ricorda i suoi morti e ricama paillettes sui sudari di tela. Tra il primo ottobre 2020 e il 30 settembre 2021, sono state uccise 375 persone trans e gender non conforming, 7% in più rispetto all’anno scorso. Il 58% sono sex workers. In Italia, sono state cinque, tra cui Adrieli, una donna trans di origini sudamericane trovata morta a Roma; Gianna Lombardi, morta ad Andria, e Cina Rivera, una ragazza trans peruviana che si è tolta la vita a Milano.
Per quanto questa realtà venga descritta con crudezza dalla Villada, una volta chiuse le pagine del romanzo non ho avuto la sensazione di aver letto qualcosa di triste. Ho avuto la sensazione di aver letto qualcosa di arrabbiato. Un manifesto, una rivendicazione, un grido di lotta che ti fa venir voglia di alzarti e dar fuoco a tutto ciò che non è leopardato.
Perché, forse, il modo scelto dalla Villada per lottare, per ribaltare altari e giudizi, per santificare i morti, è proprio la scrittura. Scrivere per riappropriarsi del linguaggio usato per ferire, ricoprirlo di gloria, ammantarlo di splendore. È così che termini come frocio e travestito diventano epiteti divini, le prostitute sacerdotesse del piacere e apprendiste del nulla, e le trans di Sarmiento regine maghe, fulgide e abbaglianti nella loro ferocia.
L’ironia della Villada, secca e pungente, va a colpire la falsità degli uomini perbene che di giorno la guardano con odio e di notte la implorano di penetrarli. Smaschera ogni ipocrisia, anche la sua, che accetta di farlo. Smaschera quella delle trans, che vendono il loro corpo per consumare tutto ciò che guadagnano nei negozi di chi le costringe a vivere al buio. La Villada urla, rivendica, colpisce attraverso le parole, nessuno escluso, nessuna tregua.
È solo dalle rovine di un mondo che può nascerne un altro. Allora, tutto ciò che c’era prima va distrutto per far spazio a una nascita. La nascita di un nuovo divino femminile, di una nuova santa. La Dea Trans: la gran puttana, la passera, la lupa, la volpe, la cattiva. Patrona delle dimenticate, delle reiette, delle prostitute. Ritratta col seno rifatto, il cuore pugnalato e un mattone in mano. Splendente e feroce, prende vita nelle nostre menti attraverso le parole della Villada, attraverso le storie di Maria la Muta, Zia Encarna, la Machi trans, Angie, di Cris Miró, della Difunta Correa. Sono loro, con le loro lacrime e la loro bellezza furiosa, con le loro lotte e la loro disperazione, le loro sbronze e la loro goliardia, a fare spazio per un nuovo santino nei nostri altari, a rivendicare un posto nel mondo.