Nato a Minervino di Lecce, classe 1954. Laureato in Scienze dell’Investigazione, con un master in Criminologia e in Valorizzazione e gestione dei beni confiscati alle mafie, giornalista pubblicista, Paolo Miggiano è stato per molti anni elicotterista della Polizia di Stato. Già membro della Direzione Nazionale di CittadinanzAttiva Onlus e degli organismi di rappresentanza dei lavoratori della P.S., è stato coordinatore e responsabile dei progetti editoriali della Fondazione Pol.i.s., con la quale tuttora collabora. Tra i suoi libri: Morire a Procida; I nuovi modelli di sicurezza urbana; Qualcun altro bussò alla porta; A testa alta – Federico Del Prete: una storia di resistenza alla camorra (Premio Giancarlo Siani 2012, Premio Tulliola Filippelli 2014 e Premio Fortuna 2017); il super premiato Ali spezzate – Annalisa Durante. Morire a Forcella a quattordici anni; NA K14314. Le strade della Méhari di Giancarlo Siani; La guerra di Dario – Vivere e morire a Napoli.
In seguito all’attentato alla nota pizzeria di Gino Sorbillo – di cui abbiamo discusso anche sulle nostre pagine – gli abbiamo rivolto alcune domande per fare maggiore chiarezza sulla difficile situazione nel napoletano.
Paolo, le bombe di Afragola e quella alla storica sede di Sorbillo appaiono come un segnale di ripresa di una guerra aperta tra gruppi camorristici. Cosa sta accadendo?
«Non sta accadendo nulla di nuovo. Le bombe ai servizi commerciali sono una classica reazione dei gruppi criminali che vogliono imporre le proprie volontà ai commercianti riottosi. La loro sempre più frammentata composizione comporta anche la necessità di reperire risorse da far confluire nelle casse, per le varie esigenze del clan. Spaccio di droga e imposizione del racket sono le attività principali di questi gruppi e per garantirsele sono disposti a tutto, anche a uccidere, non solo a mettere bombe. La contrapposizione a suon di colpi di pistola per i vicoli di Napoli o della sua periferia rispondono a questa logica di controllo del territorio e delle imprese economiche legali. Il meccanismo è sempre lo stesso: qui lo Stato (quello con la lettera maiuscola) non è in grado di garantirti la tranquillità, non riesce a proteggerti da qualsiasi azione criminale quindi, data la sua assenza, qui comandiamo noi. Abbiamo a disposizione l’organizzazione, i mezzi, gli strumenti e la forza per garantirti sicurezza. Se ti affidi a noi, nessuno verrà a farti delle rapine e nessun altro gruppo verrà a chiederti di pagare. Qui la legge siamo noi e se vuoi stare tranquillo devi pagare. Non lo vuoi fare? Allora, tiè, beccati la bomba, le pistolettate nella vetrina, l’incendio del locale e vediamo se domani continuerai a rifiutarti di pagare. Meccanismo ben oleato, che quando serve viene messo in pratica. Ed evidentemente, oggi nel centro di Napoli e nel suo hinterland, è necessario far vedere che ci sono e comandano. Sono comunque segnali dell’assenza dello Stato.»
Da studioso dei fenomeni criminali e in particolare della camorra, cosa è cambiato, se è cambiato, dai tempi dell’assassinio di Giancarlo Siani?
«Quando fu ucciso Giancarlo Siani la situazione criminale era molto diversa da quella di oggi. I gruppi, seppur nella frammentazione che caratterizza la camorra campana, erano più strutturati, con capi carismatici che ne avevano il comando, la direzione. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla vera e propria holding criminale messa in piedi dai fratelli che costituirono il clan della famiglia dei Giuliano a Napoli. Poi quelle strutture furono disarticolate dagli arresti e dai pentimenti. Si creò un vuoto. Un vuoto di direzione strategica, il cui posto è stato preso, soprattutto nel centro del capoluogo campano dai loro eredi, che sono entrati sempre più in conflitto. Vogliono tutto e subito. Imbottiti di cocaina, bruciano tutte le tappe, per arrivare ad avere il comando di piccoli gruppi. Al centro sempre il racket e il traffico delle sostanze stupefacenti. E su questo ultimo aspetto dello spaccio della droga, mi chiedo sempre quanta responsabilità abbiamo come società. Quanto, in questo meccanismo della domanda e dell’offerta, in questi anni abbiamo sottovalutato.»
Perché ancora oggi a essere obiettivi della malavita sono i giornalisti?
«Il giornalista, se svolge il suo lavoro con rigore e competenza, finisce per arrivare prima sulla notizia e a svelare retroscena che neanche le forze di polizia e la magistratura sono ancora riuscite a svelare. Ma anche quando si occupa di situazioni già al vaglio degli organi inquirenti, il suo impegno consente alla società, ai lettori, di conoscere quelle notizie che in caso contrario rimarrebbero nelle carte giudiziarie. Spesso il giornalista insiste sulle news, mette in relazione i fatti, li connette tra loro e li scrive, per divulgare, per far sapere, cosa che talvolta disturba, ma soprattutto toglie consenso sul territorio, perché alla fine l’informazione finisce per creare opinione. E le mafie proprio non lo tollerano. Giancarlo Siani, stando alle risultanze delle inchieste giudiziarie (sulle quali io ho le mie personalissime perplessità), sarebbe stato ucciso perché aveva scritto un articolo nel quale ipotizzava ciò che nel mondo criminale e non solo era già abbastanza noto e cioè che il clan Nuvoletta era un clan di infami e doppiogiochisti.»
Basta mettere sotto scorta i colleghi in prima linea per ritenere assolto il compito dello Stato nella difesa non solo del diritto di informazione e di tutela di quanti con onestà intellettuale indagano e scrivono di criminalità e malavita organizzata? Quali gli strumenti che secondo te dovrebbero essere messi urgentemente in campo?
«Tutelare chi è maggiormente esposto alle ritorsioni delle mafie è un obbligo per le istituzioni. Non dobbiamo farci abbindolare da quelli che dicono che la scorta per alcuni intellettuali, scrittori, giornalisti sia un privilegio. Vivere sotto scorta è allo stesso tempo una limitazione di libertà della persona che si protegge. Quando Roberto Saviano viaggiò con me sulla Méhari di Giancarlo Siani, mi colpì il fatto che non sapesse guidare. «Non guido da dieci anni», mi disse. Basta questo esempio per renderci conto della vita delle persone sotto tutela. E quando a essere privato della libertà di movimento è un giornalista, uno scrittore, un intellettuale, la cosa diventa ancora più grave. Tutta la sua attività viene messa in discussione, compresa la libertà del cittadino di essere informato. È vero, mettere sotto scorta i giornalisti più esposti non risolve l’intera questione. Quanti di questi impegnati in inchieste di mafia, che subiscono minacce, non si riesce a mettere sotto scorta? Tanti! Ma il problema non si limita alla tutela fisica. C’è il problema della tutela della libertà di stampa e di espressione in senso generale. Oggi non è necessario che ti vengano a uccidere, come accadde a Giancarlo Siani e a tanti altri come lui. Non è necessario neanche che ti vengano a minacciare, come è accaduto a Paolo Borrometi. Oggi è sufficiente farti pervenire una richiesta di risarcimento danni milionaria, per limitare la tua libertà di scrivere. E siccome tu, giovane giornalista precario, lavori a partita IVA, con un compenso di dieci euro a pezzo, la prossima volta ci penserai su due volte se scrivere lo stesso articolo. Ecco, una legge che tuteli in tal senso gli articolisti e la loro professione, in Italia, ancora manca e sarebbe il caso di cominciare a metterci mano.»
Numerosi i tuoi libri su omicidi di camorra: quale quello che ritieni affronti maggiormente il fenomeno della criminalità in ogni suo aspetto e a quale ti senti maggiormente legato?
«Sì, la mia narrazione si concentra per lo più sull’altra parte della storia. Spesso a prendere la scena o le copertine dei libri sono le storie dei criminali. Io ho scelto di raccontare quelle delle vittime, delle vittime innocenti. Di quelle persone, cioè, che con le mafie e con il crimine non hanno nulla a che spartire e pure muoiono. E poi le storie nelle storie mi hanno convinto che fosse necessario raccontare non solo le vicende delle vittime eccellenti, ma anche di tutte le vittime che io definisco di contorno, che difficilmente finiscono considerate. Così ho scritto racconti che hanno riscontrato un grande interesse nei lettori e nella critica letteraria. I libri, per chi li scrive, sono come dei figli. Si è affezionati a tutti. Non riesco a dire se sia più completo A testa alta, la storia di Federico Del Prete, l’ambulante che si era messo in testa di sconfiggere il clan dei Casalesi che imponevano le loro regole nei mercati rionali e che per questo fu ucciso, oppure Ali spezzate, la storia di Annalisa Durante, uccisa a Forcella una sera di primavera perché si trovava sulla traiettoria di un proiettile che non era diretto a lei, o le storie raccontate in La guerra di Dario, pubblicato con TraLeRigheLibri. Non so neanche se il più completo sia NA k14314 (Alessandro Polidoro Editore) che non è un libro su Giancarlo Siani, ma la narrazione che di questo ragazzo dal tempo breve ne abbiamo fatto in questi lunghi trentatré anni. Spetta ai lettori dare un giudizio e per ora pare che siano state tutte narrazioni molto apprezzate. E per questo li ringrazio.»
Prossimo libro?
«Sto lavorando a più progetti, ma quello che è in fase più avanzata è L’altro Casalese che uscirà ad aprile prossimo per la casa editrice Di Girolamo Editore, la stessa con cui ho pubblicato A testa alta e Ali spezzate, e che racconta la storia di Mimmo Noviello, un altro imprenditore coraggioso ucciso nell’ambito della strategia stragista della frangia bidognettiana guidata da Giuseppe Setola, il più sanguinario dei camorristi.»