In Italia, lavoriamo troppo. In un Paese con un tasso di occupazione molto lontano dall’essere soddisfacente, pieno di impiego nero, finti contratti part-time e freelance sottopagati, lavoriamo molte più ore della media europea, e non siamo affatto più produttivi. Siamo immersi in una cultura del lavoro tossica e poco attenta al benessere delle persone che, però, allo stesso tempo non giova neanche alle aziende o ai datori, ignari di essere immersi in un sistema in cui tanto tempo è sprecato e il lavoro non frutta quanto dovrebbe. Chissà, magari ha qualcosa a che fare con il benessere dei dipendenti. Ma andiamo con ordine.
Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la media di ore di lavoro annuale – considerando tempo pieno e part-time e anche le ore di impiego degli autonomi – ammonta a 1558. I dati sono relativi al 2020, anno in cui si è addirittura lavorato meno di quello precedente (1714 ore medie). Eppure, l’Italia resta uno dei Paesi europei in cui si lavora di più. Insieme a Grecia, Spagna e Portogallo, siamo gli ultimi della classifica. La media in Europa è di 1513, ma il confronto non regge con Paesi come Norvegia (1400 ore), Danimarca (1346 ore) o Germania (1331 ore), nei quali il tempo dedicato alla professione non supera le trenta ore settimanali.
Questi dati suggeriscono principalmente due considerazioni. Innanzitutto, il mercato del lavoro italiano lascia molto a desiderare. Infatti, più gli stipendi sono bassi, o i contratti precari, più ore ci si ritrova a lavorare, nella speranza di guadagnare di più. Che la situazione impiegatizia degli italiani, soprattutto i giovani, non sia rosea non è un mistero: dopotutto, siamo il Paese nel quale i giovani lasciano più tardi casa dei genitori poiché l’offerta lavorativa non è sufficiente a renderli indipendenti e a offrire loro stabilità. Siamo anche il Paese nel quale un terzo dei lavoratori è considerato working poor, ovvero guadagna meno di mille euro al mese, non riuscendo dunque a sostenere le spese di una vita ordinaria.
Da un lato, dunque, il lavoro non è sufficiente alla sopravvivenza. Dall’altro, però, anche quando lo è, si inserisce un altro problema: nel nostro Paese, sopravvive una cultura del lavoro monopolizzante, che non tiene conto della salute dei lavoratori, soprattutto di quella mentale, e del cosiddetto work-life balance, ovvero l’equilibrio tra la vita professionale e quella privata, che permette alle persone di non lavorare troppo, di non vivere per lavorare, asservendo la propria esistenza solamente alla sopravvivenza o, quando va bene, al guadagno, perdendo tutto il resto. Ma questo sistema è pieno di falle, sia per i lavoratori sia per i propri datori, a partire sin dalle sue origini.
L’orario di lavoro standard, considerando in realtà i contratti più fortunati, in Italia è composto da otto ore lavorative per cinque giorni alla settimana. Si tratta di una ripartizione all’apparenza equa, ma che risale a oltre un secolo fa. Quando i diritti dei lavoratori non esistevano ancora, ma i movimenti operai iniziavano ad acquisire consapevolezza, l’orario di lavoro passò da sedici a otto ore giornaliere. All’epoca, si stabilì la ripartizione della giornata in otto ore di impiego, otto di svago e otto di sonno. Questo sistema, però, non solo risale agli ultimi decenni dell’Ottocento e, dunque, dovrebbe apparirci quantomeno superato, ma fu pensato per sedare le rivolte del proletariato urbano e quella lotta di classe che destabilizzava la tranquillità della borghesia, tanto da convincere i datori di lavoro di accontentare le persone con abbastanza tempo libero da vederle tornare a lavoro.
Dell’importanza di avere una vita professionale che non distrugga quella privata non stiamo neanche a parlare, ma sull’insensatezza della cultura del lavoro monopolizzante è importante fare un ragionamento per chiarire l’improduttività di un sistema che non tiene conto della salute, del benessere e dell’equilibrio della vita dei propri lavoratori.
Le molte ore in più che lavoriamo in Italia non si traducono quasi mai in una maggiore produttività. Nella classifica europea dedicata al tema, infatti, siamo ovviamente tra gli ultimi. I Paesi con meno ore di lavoro, invece, sono quelli ai vertici. Sempre i dati OCSE ci suggeriscono che la produttività italiana, tra i 2010 e il 2016, ha avuto un aumento medio annuo tra i più bassi d’Europa (0,14%). Lavorare tanto, lavorare troppo, in realtà non giova neanche alle aziende. Ma siamo, tutti, così immersi in questo sistema disfunzionale, da non rendercene conto e da non saperne uscire.
È stato dimostrato che più tempo libero e maggiore possibilità di dedicarsi alla vita privata rispetto al lavoro non solo migliorano il benessere dei cittadini, ma migliorano anche la produttività. Se, dunque, non è per interesse nei confronti delle persone – in effetti, vogliamo un po’ troppo – un diverso sistema dovrebbe essere preso in considerazione dai datori di lavoro perlomeno per il loro stesso guadagno.
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge ha condotto una sperimentazione sulla settimana corta, ovvero una settimana composta da soli quattro giorni lavorativi applicata a sessantuno diverse aziende di diversi settori del Regno Unito. Ai lavoratori è stato concesso un giorno settimanale libero in più, senza riduzioni di stipendio né di mansioni né di obiettivi. Ne è venuto fuori che il 92% delle aziende partecipanti ha dichiarato di voler continuare con il sistema della settimana corta, che non solo ha visibilmente migliorato il benessere dei dipendenti, ma ha lasciato invariata, se non addirittura migliorato, la produttività. La settimana corta ha spinto a maggiore efficienza, maggiore concentrazione e maggiore pragmatismo. È sembrata un’ottima soluzione anche per i problemi legati alla salute mentale, per la quale il lavoro è spesso causa di insoddisfazione, stress e burn out.
Cosa ci separa, dunque, da un sistema lavorativo più sano, più efficiente e che faccia bene essenzialmente a tutti gli attori in ballo? Possibile che la nostra cultura del lavoro, che non si basa né sul benessere né sulla produttività, ma solo sul sacrificio a ogni costo, sopravviva sebbene sia completamente disfunzionale? Possibile che la nostra interpretazione del lavoro come unica ragione di vita sia completamente squilibrata? L’articolo 4 della Costituzione descrive il diritto al lavoro come il diritto di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Il lavoro, dunque, oltre a essere fonte di sostentamento, non è altro che un servizio che rendiamo alla società, nello spirito di una collettività all’interno della quale tutti collaborano. Non dovrebbe essere, dunque, ragione di vita, non dovrebbe essere monopolizzante e certamente non dovrebbe essere causa di malessere. Lavoriamo troppo e a giovarne non c’è nessuno.